Ritorniamo sul tema della salvezza e ora lo affrontiamo dal punto di vista delle parole di Gesù sul calice del Sangue, versato “per molti” (pollon, nell’originale, cf. Mt 26,28). Per ragioni di misericordia e per essere più inclusivi traduciamo e vogliamo tenere il “per tutti”, non accorgendoci però che in tal modo rendiamo la salvezza non solo automatica ma irrilevante; escludiamo chi combatte per salvarsi e includiamo necessariamente chi non si dà pena di rispondere all’appello del Sangue di Cristo. Il “per molti” non esclude nessuno, ma neppure include tutti.
La tradizione della Chiesa non ha avuto mai dubbi circa la sorte eterna di Giuda, definito da Gesù stesso «figlio della perdizione» (Gv 17,12). Gli Atti degli Apostoli, riferendosi al libro della Sapienza (4,19), descrivono la sua morte quale condanna di un empio (At 1,16-20). Eppure ai nostri giorni si tengono panegirici in onore di Giuda, perché in fondo la Chiesa non ha mai stabilito con certezza che qualcuno si sia dannato. Come stanno in verità le cose? Il troppo storpia, senza dubbi.
Molti alla domanda: «Cos’è più grande la giustizia o la misericordia?», risponderebbero che la misericordia è senza dubbio più grande. Ma è proprio così? L’inghippo sta nell’equiparare misericordia e carità. Invece le due cose sono distinte. La carità è Dio stesso, mentre la misericordia è l’amore di Dio donato agli uomini, «l’amore benigno», direbbe Giovanni Paolo II. Per poter essere accolta, la misericordia necessita la carità, quindi la grazia santificante, insieme alla fede e alla speranza. La misericordia così restituisce all’uomo la giustizia e la santità perse con il peccato. Non esisterebbe senza la giustizia o accanto ad essa: è la giustizia che per mezzo della misericordia di Dio ci salva.
Christopher Butler, abate inglese e padre conciliare, divenuto poi vescovo ausiliare di Westminster, scriveva negli anni ’70 che nel Vangelo di Matteo (28,19ss.) fare nuovi discepoli è menzionato prima dell’insegnamento dei comandamenti. La proclamazione del Vangelo (kerigma) viene prima dell’istruzione (didake). Pertanto, concludeva, facendosi eco di molti altri Padri conciliari, che «se l’opera evangelizzatrice non viene prima di ogni altra cosa, non c’è nessuno da istruire, nessuno con una fede da proteggere». In altre parole, l’evangelizzazione (quindi la pastorale) viene prima della dottrina (e della fede). Si può separare, in realtà, l’annuncio della fede dai contenuti della fede? Come è possibile fare discepoli (matheteusate) senza battezzare e perciò senza insegnare? Eppure su questo disguido si basa la svolta pastorale del Vaticano II.
Il 7 dicembre 2020 ricorreva il 55° anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II. Nell’allocuzione finale, Paolo VI mise in risalto il paradigma della spiritualità del Concilio, individuandolo nella storia del Samaritano. Al centro di quel discorso c’era il «nuovo umanesimo» conciliare e la svolta della Chiesa «verso la direzione antropocentrica della cultura moderna». Questo diceva il Papa tenendo a mente Gaudium et spes approvata proprio poco prima, in cui il discorso è rivolto all’uomo, cardine di tutta l’esposizione. Trattazione ahimè più sociologica che teologica, come rimproverato perfino da K. Rahner. Dopo 55 anni, dovremmo chiederci se con questo approccio antropologico/antropocentrico abbiamo davvero scoperto Cristo partendo dall’uomo o se invece siamo rimasti ancorati solo all’uomo, ma poi per perderlo di vista e occuparci di altro.
Per approfondire l’argomento consigliamo anche la lettura di due libri di P. Lanzetta sull’argomento: “Iuxta Modum. Il Vaticano II riletto alla luce della tradizione della Chiesa” (Cantagalli, 2012); “Il Vaticano II, un Concilio pastorale. Ermeneutica delle dottrine conciliari” (Cantagalli, 2014).
di P. Serafino M. Lanzetta
Si è riacceso di recente il dibattito sulla corretta interpretazione del Concilio Vaticano II. È vero che ogni concilio porta con sé problemi interpretativi e molto spesso ne apre di nuovi anziché risolvere quelli prefissatisi. Il mistero porta sempre con sé una tensione tra il detto e l’indicibile. Basti rammentare che il problema della consustanzialità del Figlio con il Padre del Concilio di Nicea (325) contro Ario fu stabilita in modo inconcusso solo sessant’anni dopo con il I Concilio di Costantinopoli (385), quando fu definita anche la divinità dello Spirito Santo. Venendo a noi, dopo circa sessant’anni dal Concilio Vaticano II abbiamo non la chiarificazione di qualche dottrina di fede ma un ulteriore obnubilamento. La Dichiarazione di Abu Dhabi (4 febbraio 2019) stabilisce con tutta sicurezza che Dio vuole la pluralità delle religioni come vuole la diversità di colore, di sesso, di razza e di lingua. Al dire di Papa Francesco, sul volo di ritorno dopo la firma del documento, «dal punto di vista cattolico il documento non è andato di un millimetro oltre il Concilio Vaticano II». Certo si tratta più di un legame simbolico con lo spirito del Concilio che echeggia nel testo della Dichiarazione sulla Fratellanza Umana. Eppure un legame c’è e non è certamente l’unico con l’oggi ecclesiale. Segno che tra il Concilio di Nicea a il Vaticano II c’è una differenza che bisogna tener in considerazione.
L’ermeneutica della continuità e della riforma ci ha dato la speranza di poter leggere le dottrine nuove del Vaticano II in continuità con il magistero precedente in nome del principio secondo cui, un concilio, se celebrato con i dovuti crismi canonici, è assistito dallo Spirito Santo. E se l’ortodossia non la si vede la si ricerca. Intanto però già qui si pone un problema non secondario.
Affidarsi all’ermeneutica per risolvere il problema della continuità è già un problema in se stesso. In claris non fit interpretatio, recita un noto adagio, per cui se la continuità non dovesse essere dimostrata con l’interpretazione non ci sarebbe bisogno dell’ermeneutica come tale. La continuità non è evidente, ma va dimostrata o piuttosto interpretata. Dal momento che si fa ricorso all’ermeneutica, ci si immette in un processo crescente di interpretazione della continuità, un processo coinvolgente che non si arresta. Finché ci saranno degli interpreti ci sarà anche il processo interpretativo e ci sarà la possibilità che tale interpretazione sia avvalorata o smentita perché adeguata o pregiudiziale agli occhi dell’interprete successivo.
L’ermeneutica è un processo, è il processo della modernità che pone l’uomo come esistente e lo coglie nel raggio dell’esserci qui ed ora. Eco di ciò è il problema del Concilio che prova a dialogare con la modernità che a sua volta è un processo esistenziale non facilmente risolvibile nei circoli ermeneutici. Se ci si affida solo all’ermeneutica per risolvere il problema della continuità si rischia di avvilupparsi in un sistema che pone la continuità come esistente (o da parte opposta la rottura), ma di fatto non la raggiunge. E non sembra che l’abbiamo raggiunta tutt’oggi, a quasi sessant’anni dal Vaticano II. C’è bisogno non di un’ermeneutica che ci dia la garanzia della continuità, ma di un principio primo che ci dica se l’ermeneutica utilizzata è valida o meno: la fede della Chiesa. Non meraviglia che a tanta distanza dal Vaticano II stiamo ancora disputando sull’ermeneutica della continuità di un concilio rispetto ai precedenti e rispetto alla fede della Chiesa, quando la stessa fede ci ha lasciato da molti anni a questa parte e non accenna per ora a ritornare.
L’ermeneutica della continuità lasciò avvertire qualche scricchiolio sin dall’inizio; più di recente sembra che lo stesso Joseph Ratzinger se ne sia alquanto distanziato. Infatti negli appunti di costui relativi alle radici degli abusi sessuali nella Chiesa (pubblicati in esclusiva per l’Italia dal Corriere della Sera, l’11 aprile 2019), si chiama in causa ripetute volte il Concilio Vaticano II. Con più libertà teologica e non in veste ufficiale, Benedetto XVI addita in una sorta di biblicismo promanante da Dei Verbum la radice dottrinale principale della crisi morale della Chiesa. Nella lotta ingaggiata al Concilio, si provò a liberarsi del fondamento naturale della morale per fondare quest’ultima esclusivamente sulla Bibbia. L’impianto della Costituzione sulla Divina Rivelazione – che non volle far cenno al ruolo della Traditio constitutiva, seppur imperato da Paolo VI – si rifletté nel dettato di Optatam totius 16, che di fatto venne poi declinato con il sospetto nei confronti di una morale presto definita “preconciliare”, spregiativamente identificata come manualistica perché giusnaturalista. Gli effetti negativi di tale riposizionamento non tardarono a farsi sentire e sono ancora sotto i nostri occhi attoniti. Nei medesimi appunti di Ratzinger si legge anche una denuncia della cosiddetta “conciliarità” ertasi come discrimen di ciò che era veramente accettabile e proponibile, fino a portare alcuni vescovi a rifiutare la tradizione cattolica. Nei vari documenti post-conciliari che hanno cercato di correggere il tiro, dando la giusta interpretazione della dottrina, non si è mai preso in seria considerazione questo problema teologico-fondamentale inaugurato dalla “conciliarità”, che difatti apre a tutti gli altri problemi e soprattutto diventa uno spirito libero che si aggira e che sporge sempre rispetto al testo e soprattutto rispetto alla Chiesa. Se ne parlò durante il Sinodo dei Vescovi del 1985, ma non si è mai concretizzato in una chiara presa di distanza.
Il problema ermeneutico del Vaticano II è destinato a non finire se non affrontiamo un punto centrale e radicale da cui dipende la chiara comprensione delle dottrine e la loro valutazione magisteriale. Il Vaticano II si pone come concilio con un fine squisitamente pastorale. Tutti i concili precedenti sono stati pastorali nella misura in cui hanno affermato la verità della fede e hanno combattuto gli errori. Il Vaticano II per un fine pastorale sceglie un metodo nuovo, il metodo appunto pastorale che diventa un vero programma d’azione. Dichiarandolo a più riprese, ma senza mai dare una definizione di cosa intendesse per “pastorale”, il Vaticano II si pone così in modo nuovo rispetto agli altri concili. È il concilio pastorale che più di ogni altro ha proposto nuove dottrine, ma avendo scelto di non definire nuovi dogmi, né di reiterare in modo definitivo alcunché (forse la sacramentalità dell’Episcopato, ma non c’è unanimità). La pastoralità prevedeva un’assenza di condanne e una non definizione della fede, ma solo un modo nuovo di insegnarla per il tempo di oggi. Un modo nuovo che influì sulla formazione di dottrine nuove e viceversa. Un problema che avvertiamo con tutta la sua virulenza oggi, quando si preferisce lasciare la dottrina da parte per motivi pastorali, senza però poter fare a meno di insegnare un’altra dottrina.
Il metodo pastorale (si trattò di metodo) svolge un ruolo di prim’ordine in Concilio. Dirige l’agenda conciliare. Stabilisce ciò che è da essere discusso e di rifare alcuni schemi centrali perché poco pastorali; di tralasciare dottrine comuni (come ad esempio il limbo e l’insufficienza materiale delle Scritture, reiterata dal magistero ordinario dei catechismi) perché ancora disputate e di abbracciare e di insegnare dottrine nuovissime che non godevano di nessuna disputa teologica (come ad esempio la collegialità episcopale e la restaurazione del diaconato permanente uxorato). Addirittura la pastorale viene ad assurgere al rango di costituzione con Gaudium et spes (si era abituati a una costituzione che fosse tale in relazione alla fede), un documento così malmesso da far rizzare i capelli anche a K. Rahner, il quale consiglierà al Card. Döpfner di far dichiarare al testo fin dall’inizio la sua imperfezione. Ciò soprattutto per il fatto che l’ordine creato non appariva finalizzato a Dio. Eppure Rahner era il promotore di una pastorale trascendentale.
Così il Concilio poneva il problema di se stesso, della sua interpretazione, e ciò non a partire dalla fase ricettiva, ma sin dalle discussioni in aula conciliare. Capire il grado di qualificazione teologica delle dottrine conciliari fu impresa non facile agli stessi Padri che ripetutamente ne fecero richiesta alla Segreteria del Concilio. La pastoralità poi entra anche nella redazione del nuovo schema sulla Chiesa. Per molti Padri il mistero della Chiesa (aspetto invisibile) era più ampio del suo manifestarsi storico e gerarchico (aspetto visibile), e ciò fino al punto di ritenere una non co-estensività del Corpo mistico di Cristo con la Chiesa Cattolica Romana. Due Chiese giustapposte? Una Chiesa di Cristo da un lato e la Chiesa Cattolica dall’altro? Questo rischio derivò non dal cambio verbale con il “subsistit in”, ma fondamentalmente dall’aver rinunciato alla dottrina dei membri della Chiesa (si passò dal de membris al de populo) per non offendere i protestanti, membri imperfetti. Oggi sembra che tutti più o meno appartengono alla Chiesa. Se formulassimo una domanda: «I Padri ritengono che il Corpo mistico di Cristo è la Chiesa Cattolica?», molti cosa risponderebbero? Diversi Padri conciliari risposero di no, per questo siamo dove siamo.
Lo spirito del Concilio nasce dunque nel Concilio. Si libra per mezzo del Vaticano II e dei suo testi; è riflesso spesso di un spirito pastorale non chiaramente identificabile, che costruisce o demolisce in nome della conciliarità, cioè spesso del sentire teologico del momento che aveva più presa perché più forte la voce di chi parlava, non tanto attraverso i media, ma in aula e in Commissione dottrinale. Un’ermeneutica che non appura ciò finisce col prestare il fianco a un problema che si aggira tutt’oggi irrisolto: il Vaticano II come assoluto della fede, come identità del cristiano, come passe-partout nella Chiesa “post-conciliare”. La Chiesa è divisa perché dipende dal Concilio e non viceversa. Questo può generare poi un altro problema.
Prima il concilio come assoluto della fede e poi il papa come assoluto della Chiesa difatti sono due facce della stessa medaglia, dello stesso problema di assolutizzare ora l’uno ora l’altro, ma dimenticando che prima c’è la Chiesa, poi il papa con il suo magistero pontificio e poi un concilio con il suo magistero conciliare. Il problema di questi giorni di un papa visto come un assoluto nasce quale eco del concilio come ab-solutus e ciò per il fatto che uno spirito del concilio, cioè l’evento superiore ai testi e soprattutto al contesto, viene enfatizzato come criterio di misura chiave. È un caso che chi cerca di blindare il magistero di Francesco faccia continuo appello al Vaticano II, vedendo le ragioni delle critiche in un rifiuto del Vaticano II? Sta di fatto però che tra Francesco e il Vaticano II c’è piuttosto un legame simbolico e quasi mai testuale. I papi del Concilio e del post-concilio sono santi (o lo saranno presto) mentre la Chiesa langue, piombata in un silente deserto. Questo non ci dice niente?
Quanto poi alle ultime prese di posizione, paradossalmente, non mi sembra che le ragioni di Sua Ecc.za Mons. Viganò e del Card. Brandmüller siano poi così lontane. Viganò preferisce dimenticare il Vaticano II; non pensa che la correzione delle sue dottrine ambigue sia una soluzione perché a suo modo di vedere nel Vaticano II c’è un problema embrionale, un colpo di mano modernista iniziale che ne ha pregiudicato non la validità ma la cattolicità. Brandmüller invece preferisce adottare il metodo della lettura storica dei documenti del Concilio, specialmente per quelle dottrine più difficili da leggere in linea con la Tradizione. Questo gli permette di affermare che documenti come Nostra Aetate, a cui si potrebbe aggiungere anche Unitatis redintegratio e Dignitatis humanae, abbiano ormai solo un interesse storico, anche perché la corretta interpretazione del loro valore teologico è stata data dal magistero successivo, specialmente da Dominus Iesus. Se Viganò preferisce dimenticare il Concilio e Brandmüller suggerisce di storicizzarlo e così di superarlo senza colpo ferire, evitando una correzione magisteriale ad hoc e che si tralasci l’ermeneutica della continuità, sembra che la distanza sia sulle modalità. Tuttavia si potrebbe obiettare che sarà difficile che con la sola ermeneutica storicizzante, quantunque necessaria, in un nuovo Enchiridion dei Concili, aggiornato a questa recente discussione storico-teologica, il Vaticano II appia solo come un concilio dall’interesse storico. E nulla vieterà a un’Abu Dhabi 2.0 di riferirsi esplicitamente a Nostra Aetate, ignorando di nuovo Dominus Iesus, o ad Amoris laetitia di agganciarsi a Gaudium et spes bypassando Humanae vitae. Non si dimentichi che la Scuola di Bologna ha provato a fare qualcosa del genere con il Concilio di Trento, ritenendolo ormai solo un Concilio Generale e non più Ecumenico, di rango inferiore dal punto di vista teologico. Il Vaticano II certo non è Trento, ma ciò solo dal punto di vista teologico e non storico.
Bisogna anche essere consapevoli del fatto che l’ermeneutica storica, che lascia il testo nel suo contesto e alle idee del redattore, si adatta bene al Vaticano II in quanto concilio pastorale pienamente immerso nel suo tempo. La medesima ermeneutica però non funziona con il Concilio di Trento, ad esempio. Se infatti provassimo a storicizzare la dottrina e i canoni del Santo Sacrificio della Messa, ci troveremmo a fare il medesimo lavoro di Lutero rispetto alla tradizione dottrinale e favoriremmo l’opera dei neo-protestanti che vedono nella Messa niente di più che una cena.
Tra queste due posizioni si colloca quella di Mons. Schneider che sembra più percorribile: correggere le espressioni e le dottrine ambigue presenti nei testi conciliari che hanno dato occasione ad innumerevoli errori accumulatisi nel corso di questi anni, non ignorando i tanti insegnamenti virtuosi e profetici, come la santità laicale e il sacerdozio comune dei fedeli. Mons. Schneider indica come “quadratura del cerchio” l’operazione di chi vede tutto in continuità in nome dell’ermeneutica giusta.
Bisognerebbe partire da un sincero atto di umiltà proposto da Mons. Viganò, riconoscendo che ci siamo lasciati ingannare dalla presunzione di risolvere tutti i problemi in nome dell’autorità, sia in buona che in cattiva fede. O l’autorità poggia sulla verità o non sta in piedi. Non si tratta di ripudiare o di cancellare il Vaticano II, che rimane un concilio della Santa Chiesa, ma tutte le storpiature, sia per eccesso che per difetto. Non si tratta neppure di darla vinta ai tradizionalisti, ma di riconoscere la verità. Quando il Vaticano II sarà liberato da tutta la politica che lo circonda allora saremo su una buona strada.
Fonte: Duc in altum, Blog di Aldo Maria Valli
Il “cuore” nella Sacra Scrittura è il centro della persona, lì dove s’incrociano pensieri, desideri, scelte; dove viene concepito il bene e il male. Il «cuore puro», capace di vedere Dio, è il «cuore nuovo» promesso dai profeti quale dono dall’alto per poter vivere finalmente secondo la legge dell’amore di Dio. Questo cuore nuovo è il Cuore di Cristo, centro teandrico del Verbo incarnato, luogo della nostra salvezza e riconciliazione con il Padre. Il Cuore di Cristo è soprattutto simbolo della sua ardente carità, manifestata nel dono dell’Eucaristia, del Sacerdozio e della Vergine Maria. Dal «desiderium desideravi» di Lc 22,15, attraverso quell’«in finem dilexit eos» (Gv 13,1), arriviamo a contemplare questo Cuore totalmente squarciato per noi nel «consummatum est» (Gv 19,30). Questo Cuore rimarrà così per sempre aperto e in attesa.
Buona visione!
Catechesi di P. Serafino M. Lanzetta, tenuta a Radio Buon Consiglio il 27 aprile 2020.
Gesù è il «Buon Pastore» che dà la vita per le sue pecorelle. Questo dare la vita è da leggersi in modo sacrificale: Gesù offre la sua vita come sacrificio di riparazione per i nostri peccati. Qui al testo di Giovanni (10,11-14) fa da sfondo la teologia sacrificale del IV carme del Servo sofferente di Isaia 53,10 e il dare la vita in riscatto per molti di Mc 10,45. Due sono le caratteristiche del Buon Pastore: 1) la conoscenza reciproca del Pastore e delle sue pecore è radicata nella conoscenza del Padre e del Figlio; 2) Gesù dà la sua vita in sacrificio per noi. Due allora saranno le caratteristiche per discernere un vero e buon pastore da un semplice mercenario: 1) se egli rimane fedele alla medesima “conoscenza” di Cristo, ovvero nella dottrina del Logos, insegnando il Vangelo secondo la perenne Tradizione e 2) se è infiammato della medesima carità pastorale nel dare perfino la sua vita per la salvezza delle pecorelle. Un mercenario non è interessante al Vangelo né pertanto alle anime da salvare.
Buona visione!
Catechesi di P. Serafino M. Lanzetta, tenuta a Radio Buon Consiglio il 4 maggio 2020.
Maria è veramente “Corredentrice” perché è veramente nostra Madre. Il fatto che il Concilio Vaticano II non abbia utilizzato il termine per motivi ecumenici non significa che questa verità sia stata di colpo abolita dal patrimonio della fede della Chiesa. Oltretutto, l’ultimo Concilio vi fa riferimento anche senza utilizzare la parola (cf. ad es. LG 58). “Corredentrice” significa che Maria ha collaborato attivamente con Cristo alla nostra rigenerazione soprannaturale. Se la sua maternità spirituale non fosse corredentiva, cioè generativa della grazia della salvezza nel suo dolore di Madre, come di una partoriente durante il travaglio del parto, non sarebbe reale ma solo simbolica. Intimistica. Di più, se Maria non è Corredentrice non è neppure discepola. Seguire Cristo fedelmente implica un assenso, una collaborazione con la grazia, una cooperazione. La Vergine Maria è discepola in modo unico perché ha collaborato con Cristo in modo singolare non alla sua ma alla nostra salvezza. Virgo Co-redemptrix ora pro nobis!
Buona visione!