Category

Cristologia

Category

di P. Serafino Maria Lanzetta

Le testimonianze della tradizione

Nei Vangeli abbiamo pochi dati storici sulla nascita di Gesù ma sufficienti per custodire il mistero. Da Matteo e Luca apprendiamo che Gesù nacque a Betlemme di Giuda (cfr. Mt 2,1; Lc 2,4). Solo da San Luca sappiamo che non c’era posto “nella locanda” (o “nell’alloggio”) e che, per questo motivo, il bambino fu avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia (cfr. Lc 2,4-7). La visione tradizionale ritiene che Gesù sia nato in una grotta. L’unico riferimento biblico letterale è il fatto che Nostro Signore fu deposto in una “mangiatoia” (cfr. Lc 2,7: phátne). Tuttavia, ci sono testimonianze storiche dei primi Padri della Chiesa sulla nascita di Gesù in una grotta: San Giustino Martire (150 d.C.), secondo il quale Gesù è nato in una grotta utilizzata come stalla, anche se non proprio la tipica stalla in pietra e legno così familiare nella nostra arte cristiana; poi Origene (250 d.C.) e San Girolamo (325 d.C.). Nel 335 d.C. l’imperatore Costantino costruì la Basilica della Natività nel luogo in cui era stata individuata la grotta della natività di Gesù a Betlemme, grazie alle testimonianze storiche di questi primi Padri della Chiesa.

Formuliamo un’ipotesi che ci accingiamo a discutere: se la grotta della nascita di Gesù a Betlemme, su cui è stata costruita la Basilica della Natività, e che prima, nel 130 d.c., l’imperatore pagano Adriano, cercando di profanare i luoghi santi ebraici e cristiani in Palestina, aveva ironicamente contribuito a conservarne l’identità, non dovesse più essere il luogo della nascita di Nostro Signore alla luce di una nuova scoperta esegetica, questa nuova posizione potrebbe semplicemente mettere in discussione l’ormai plurisecolare accoglienza dell’autenticità storica di un sito così antico? Il nocciolo della questione, su cui penderebbe l’intera vicenda, è una diversa traduzione di una sola parola. Sarebbe ciò sufficiente per rinunciare all’assunto tradizionale?

Non c’era posto nella stanza degli ospiti?

Perché formuliamo quest’ipotesi? Più recentemente, a partire in particolare dagli studi di Kenneth Bailey (1930-2016, ministro presbiteriano, autore prolifico negli studi sul Medioriente nel Nuovo Testamento mediorientale), in particolare nella sua opera intitolata Jesus Through Middle Eastern Eyes. Cultural Studies in the Gospel (2008), la visione classica del luogo della nascita di Gesù è stata messa in discussione, favorendo una nuova teoria: Gesù sarebbe nato in una normale abitazione del tempo. Bailey segue l’interpretazione di Alfred Plummer (1841-1926, ecclesiastico e biblista della Chiesa Anglicana), nella sua opera Gospel According to St Luke, 5th ed., International Critical Commentary (1922).

Diversi argomenti sono portati a sostegno di questa nuova teoria. Innanzitutto il fatto che sarebbe stato quasi impossibile per Giuseppe, della casa di Davide, non trovare un luogo accogliente a Betlemme, città regale, dove Maria sua sposa avesse potuto partorire. Sarebbe stato impensabile che, bussando a qualsiasi porta e recitando la genealogia regale, non avesse trovato ospitalità per la notte. Questa manifesta incongruenza conduce a un secondo e più importante argomento esegetico. La parola usata da Luca per indicare la locanda in cui non c’era posto per la Sacra Famiglia è katáluma (da katá lúo) che significa sciogliere o slegare, cioè disarcionare i cavalli e slegare il proprio bagaglio, che quindi può alludere a un generico alloggio per uomini e bestiame. In effetti, alcuni autori, come Joseph Fitzmeyer SJ, in The Gospel according to Luke I-IX (1970), traducono katáluma con il termine generico di luogo ospitale (“lodge”), una sorta di caravanserraglio. Per Raymond E. Brown, nella sua opera The Birth of the Messiah (1977), Luca sembra più interessato a dire al suo pubblico dove Maria depose il bambino appena nato. Il fatto di ripetere per tre volte i dettagli relativi alle fasce e alla mangiatoia (cf. Lc 2,7.12.16) deve avere un significato notevole, soprattutto per il fatto che questa condizione unica si contrappone alla mancanza di spazio nell’alloggio. La menzione dell’alloggio è di secondaria importanza; non è il punto centrale, anche se per Brown, che conduce la sua ricerca con puro metodo storico-critico, “se la mangiatoia era antecedente a quella lucana nella tradizione, la mancanza di posto nell’alloggio può essere stata una vaga supposizione di Luca, per spiegare l’uso della mangiatoia”[1].  E se invece fosse il resoconto storico di ciò che è realmente accaduto? Perché escluderlo a priori? La tentazione di spiegare la nascita di Nostro Signore con i suoi vari elementi suggestivi come Midrash (interpretare o commentare una parola o un evento dell’Antico Testamento riprodotto nel Nuovo in virtù di una lettura teologica dell’evangelista, ma priva di alcun fondamento storico) è molto forte. Eppure, bisogna ricordare che la nascita di Nostro Signore, così come viene raccontata nei Vangeli, è unica nel suo genere. Ciò che Scott Hahn e Curtis Mitch dicono del Vangelo di Matteo può essere applicato anche a quello di Luca:

A differenza del midrash, la storia di Gesù dell’evangelista non si fonda su un testo dell’Antico Testamento. Mentre il midrash cerca di estrarre i significati più profondi dell’Antico Testamento, Matteo non cerca di interpretare l’Antico Testamento per se stesso. Più precisamente, Matteo non sta raccontando episodi dell’Antico Testamento, ma una storia completamente nuova! È una storia con nuovi personaggi ed eventi; è una storia che potrebbe stare in piedi da sola, a prescindere dalle sue citazioni dell’Antico Testamento. Matteo utilizza l’Antico Testamento per illuminare il significato della nascita di Gesù, non per determinarne in anticipo la trama e l’esito[2].

È vero, tuttavia, che quando Luca menziona una vera e propria “locanda”, nella parabola del buon samaritano che si prende cura di quell’uomo incappato tra i briganti (Lc 10,34), usa un altro termine, pandocheîon, che indica una locanda commerciale, dove generalmente venivano accolti viaggiatori e ospiti. Katáluma, più specificamente, è la parola che indica la “stanza superiore” dove Gesù celebra l’Ultima Cena con i suoi discepoli (Marco 14,14 e Luca 22,11; Matteo non menziona la stanza superiore). Si tratta chiaramente di una sala di ricevimento/stanza per ospiti in un’abitazione privata. La lettura di katáluma come “stanza degli ospiti” è qui preferita per il fatto che nel Vangelo di Luca due elementi già incontrati starebbero in contrapposizione tra loro: phátne e katáluma, potendo indicare quest’ultimo, ancora più genericamente, uno spazio in qualsiasi tipo di struttura. Quindi, la conclusione è che siccome non c’era posto nella stanza destinata agli ospiti, è molto probabile che Maria e Giuseppe siano stati ospitati nell’unica stanza destinata alla famiglia, che fungeva da soggiorno e da stanza da letto, dove c’era spazio anche per gli animali, sfamati in una o più mangiatoie incavate nel pavimento o costruite come elementi indipendenti. Maria avrebbe quindi partorito Gesù nel mezzo di una casa affollata, alla presenza di ospiti e familiari, anche se solo le donne, che fungevano anche da levatrici, erano ammesse al momento del parto. I pastori sarebbero arrivati e avrebbero trovato un’atmosfera familiare di festa, tale da poter annunciare subito la buona novella a tutte le persone lì riunite. Bailey conclude così le sue analisi:

I nostri presepi natalizi rimangono come sono perché “il bue e l’asino davanti a lui si inchinano, / ora che è nella mangiatoia”. Ma la mangiatoia era in una casa calda e accogliente, non in una stalla fredda e solitaria. Guardare la storia in questa luce elimina gli strati di mitologia interpretativa che si sono accumulati intorno ad essa. Gesù è nato in una semplice casa di villaggio con due stanze, come quella che il Medio Oriente conosce da almeno tremila anni. È vero, riscriviamo le nostre commedie natalizie, ma nel riscriverle la storia viene arricchita, non sminuita[3].

Alcuni principi della fede facilmente trascurati

In realtà, seguendo questa teoria, apparentemente convincente, che mira soprattutto a confortare Gesù e i santi Sposi liberandoli da una situazione di freddo isolamento come quello raffigurato dalla Tradizione, ci sono delle verità fondamentali della fede che rischiano di essere messe in discussione, quantunque in modo velato. Dovrebbe essere una preoccupazione per tutti i cristiani e non solo dei cattolici. Innanzitutto, chiediamoci, quale sarebbe il “segno” della nascita miracolosa del Messia, vero Dio e vero Uomo, se l’ambiente fosse quello di una normale abitazione, dove l’atmosfera di gioia e di festa promana dal festoso raduno di parenti e conoscenti venuti a Betlemme per il censimento più che per la nascita del Messia? Gesù sarebbe stato il protagonista del Natale in quella casa affollata? Il “segno” della sua nascita esprime il miracolo, deve essere trascendente e al tempo stesso comprensibile sia ai semplici che ai dotti, a tutti.

Il segno dato era “un bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia” (cfr. Lc 2, 11). Una mangiatoia all’interno del soggiorno di casa rappresenterebbe piuttosto un luogo ordinario in cui venivano custoditi gli animali e non indicherebbe nulla di speciale, al di là del suo significato immediato e tangibile. Se gli abitanti di Betlemme erano così ospitali, perché non offrire a quel Bimbo anche un luogo più confortevole, un semplice cuscino su cui adagiarlo, piuttosto che un incavo nel pavimento? Ma ciò che più stride con il racconto evangelico è il fatto che quando i pastori arrivarono non trovarono una calca di gente, ma semplicemente coloro che sono con il Bimbo i protagonisti del mistero del Natale. “Vennero in fretta – annota il Vangelo – e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino adagiato nella mangiatoia” (Lc 2, 16). Solo tre persone e sicuramente avvolte da un silenzio adorante. In effetti, il silenzio e la solitudine favoriscono la presenza del mistero.

Inoltre, se i pastori si fossero presentati in un’abitazione privata nella città di Betlemme, sarebbero stati accolti, visto che la loro condizione sociale, dovuta alla loro professione impura, li escludeva dalla vita civile? A meno che non si sia tentati di escludere la storicità dell’arrivo dei pastori alla mangiatoia, bisogna anche ricordare che queste persone umili e reiette erano state inserite in una lista di persone non idonee a essere giudici o testimoni, poiché pascolavano le loro greggi su terreni altrui. Oltre a essere considerati impuri, erano anche etichettati come disonesti. Come si spiega, allora, da un lato la loro esclusione sociale e dall’altro la possibilità di essere accolti in un’abitazione privata? Di più, la loro attività di evangelizzazione, raccontando a tutti del bambino e facendo meravigliare le persone che ascoltavano il loro messaggio (cfr. Lc 2,17-18), inizia solo dopo l’incontro con Cristo e in virtù dell’ausilio efficace della sua grazia. Arrivarono, racconta il Vangelo, videro il segno preannunciato dall’Angelo e capirono la parola rivolta loro riguardante il bambino (cfr. Lc 2,17). Vedrebbero e capirebbero se quella stanza fosse stata occupata da estranei all’evento miracoloso? Cosa c’è di veramente speciale, inoltre, se tutte le persone a cui i pastori annunciarono la grande novella si trovavano già nella casa dove erano stati accolti Maria e Giuseppe? C’era bisogno di evangelizzare quella famiglia e gli ospiti, se erano già alla presenza della Sacra Famiglia?

Il punto focale, comunque, è il segno della mangiatoia, attraverso il quale anche l’ambiente circostante, in qualche modo, partecipa all’essere segno dell’unicità di quel Bimbo, il nato Messia. La singolarità di quella nascita doveva essere colta da elementi esteriori straordinari che alludevano a una realtà interiore, pronta e facile da leggere. Vedendo il segno e constatando la veridicità della parola dell’angelo, arrivarono subito alla conclusione: questo bambino è il Cristo Signore. Possiamo ben supporre che i pastori siano stati i primi a essere chiamati per il fatto che, in qualche modo, hanno vissuto la stessa condizione del Messia appena nato, quella degli anawim, a cui appartenevano Maria e Giuseppe. Erano anche le uniche persone sveglie nella notte a vegliare sulle loro greggi. Erano vigili nella notte di quel mondo e pronti, nella loro umiltà, alla venuta di Dio. Con semplicità e fiducia avevano accolto la parola dell’angelo e si erano messi in cammino verso il Salvatore appena nato. Il Vangelo dice così: “E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro” (Lc 2,17). La parola detta loro rimandava al segno e il segno ora rimanda alla parola e li rassicura, li fa credere. Parola e segno si uniscono nella carne assunta dal Logos ed esprimono l’unità sacramentale della realtà invisibile e visibile, nel sacramento per eccellenza: il Verbo incarnato.

Ma c’è un altro dato importante su cui riflettere, quello decisivo. Se la Madonna ha partorito in una normale abitazione, in un via vai di gente e con donne che la assistevano, la conclusione logica è che il parto non è verginale. Un contesto familiare ordinario evoca immediatamente un parto ordinario. Una condizione esterna del parto verginale richiede che esso sia avvolto dal silenzio, dalla privacy e dall’intimità della Madre con il Figlio. Anche la presenza di Giuseppe non è richiesta in quel momento solenne. La verginità in partu della Madre è una nascita miracolosa, straordinaria, del Figlio, di Colui che passa attraverso il grembo della Beata Vergine senza intaccarlo, senza rotture né doglie del parto. Quel momento prelude alla risurrezione di Gesù, quando il suo corpo glorioso passò attraverso il lenzuolo funebre, la sindone, lasciandola stesa lì dov’era, cosa che fu davvero sorprendente per Giovanni e Pietro. Giovanni vide questo segno e credette nella risurrezione (cfr. Gv 20,4-8); e prelude pure all’ingresso di Nostro Signore nel cenacolo, sempre dopo la sua risurrezione, passando attraverso una porta chiusa (cfr. Gv 20,19). Il modo in cui Gesù è venuto al mondo si riflette in questi ultimi momenti solenni della sua vita, intessuti da un’esperienza comune: il silenzio e la riservatezza da occhi profani. Il mistero è sacro, deve essere messo necessariamente al riparo dalla profanità, altrimenti viene facilmente negato. La nascita in un normale ambiente domestico, nonostante una testimonianza antica e costante, trasmette l’idea di un momento “normale” nella vita di Giuseppe e Maria, dove, in realtà, il mistero è oscurato dal rumore e dalla profanità della vita. L’ipotesi di un “soggiorno” quale luogo di nascita di Gesù sembra favorire l’idea di un Natale gioioso, senza isolamento e tristezza vissuti dal Bambino Gesù, immerso piuttosto in un’atmosfera di festa. Eppure tutto ciò sembra rovinare, accanto agli stessi principi della fede, anche il significato stesso della gioia e perciò della festa.

La gioia promana dalla natività di Cristo, dal factum della sua nascita e non dalla situazione esterna di un ambiente accogliente e familiare. È il parto verginale di Maria, privo di dolore, eloquentemente gioioso, ad annunciare una gioia senza pari da trasmettere al mondo. I pastori sono stati i primi a farsi messaggeri di questa gioia perché l’hanno sperimentata loro stessi: una gioia che andava oltre le aspettative umane. Tutti coloro che ascoltavano gli umili pastori parlare del bambino si meravigliavano della buona novella diffusa in ogni dove: era nato il Cristo Signore. E Maria, la Madre di Gesù, colei che era pienamente consapevole del mistero verginale dell’Incarnazione e della nascita dell’Emmanuele, “conservava tutte queste parole, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Maria conserva le parole dei pastori, la loro fede nel mistero dell’incarnazione di Dio quale eco della parola del messaggero celeste. Il suo Cuore Immacolato custodiva le primizie di quella fede: è il luogo santo dove sono custoditi tutti i misteri della fede e la meraviglia dei primi credenti. Infine, un ultimo argomento per rifiutare l’ipotesi di un soggiorno familiare per la nascita di Gesù viene offerto proprio da questo atteggiamento interiore e altamente spirituale di Maria nel meditare quelle parole. Da ciò viene veicolata ancora una volta l’idea di un’atmosfera di raccoglimento, di silenzio e solitudine che avvolgeva la nascita di quel Bimbo. Solo Maria era con il Bambino nel momento mirabile della sua venuta al mondo, e pertanto il Bambino è con Maria. Madre e Figlio, Figlio e Madre, sono una cosa sola e rimangono in quell’unione che è tutta verginale.

Il Bambino con Maria sua Madre

Per convincersi di questa unione verginale tra il Bambino e sua Madre, a cui deve necessariamente fare eco un ambiente esterno adeguato, si può fare riferimento anche al Vangelo di Matteo. Qui, la verginità di Maria, funge da filo d’oro che unisce in modo speciale il Figlio con la Madre. Matteo, al capitolo 2, ripete cinque volte la stessa espressione, e cioè che il Bambino Gesù è con Maria sua Madre. Analizziamo queste espressioni che molto significativamente sembrano ripetere una “formula liturgica”. Il contesto è quello della visita dei Magi e della fuga in Egitto, seguita dal ritorno della Sacra Famiglia a Nazaret.

2,11: Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono.

2,13: Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto».

2:14 Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto,

2:20: Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele;

2:21: Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele.

È chiaro che il Bambino è indissolubilmente unito a Maria sua madre e che questo legame non può che essere la perpetua verginità di Maria. Gesù è l’unico Figlio di Maria, senza un padre, come è l’unico Figlio del Padre dei cieli, senza una madre, vero Dio e vero Uomo. Possiamo riassumere il tutto con il famoso motto di San Luigi Maria Grignion de Montfort: ad Jesum per Mariam. Nel silenzio della verginità di Maria, nella sua riservatezza divina, troviamo la vera culla della santa nascita di Gesù, che necessariamente riflette e modella quella materiale: l’austera grotta della nascita del Divin Pargoletto. O il mistero è un’unità di segno e realtà o semplicemente non è.

____________________

[1] R.E.Brown, The Birth of the Messiah. A Commentary on the infancy narratives in Matthew and Luke (London: Geoffrey Chapman, 1977) Reprinted 1978, 419 (traduzione nostra).

[2] S. Hahn-C. Mitch, Ignatius Catholic Study Bible. The New Testament (San Francisco: Ignatius Press, 2010) 10 (traduzione nostra).

[3] K. Bailey, Jesus Through Middle Eastern Eyes. Cultural Studies in the Gospel (Downers Grove: IVP Academic, 2008) 36 (traduzione nostra).

 

Mettiamoci all’ascolto del Santo Natale e scopriamo il suo vero significato: Cristo che nasce per noi. Ascoltiamo il vagito del Bimbo di Betlemme che è venuto per noi. Lasciamoci sorprendere dall’umiltà e della prontezza dei pastori nel rispondere al divino appello. Corriamo anche noi a Betlemme. Ma forse non ne siamo più capaci. Non è forse vero che ci riteniamo adulti ma negando la verità dell’inizio della vita (e della sua fine naturale)? Essere adulti senza passare attraverso la verità della fanciullezza è una menzogna. Il Natale ci redime da questa bugia della vita. È un tempo di grazia per rinascere anche noi e imparare a vivere veramente, per sempre.

La Vergine Maria che ha dato alla luce Gesù, «ostia pura, ostia santa, ostia immacolata» (dal Canone Romano) e ha partecipato all’immolazione del Figlio sul Calvario, «soffrendo profondamente col suo Unigenito e associandosi con animo materno al suo sacrificio, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei generata» (LG 58), deve essere pure presente in ogni celebrazione del Santo Sacrificio della Messa. Siccome la Messa è la ripresentazione del sacrificio del Calvario, in essa viene ripresentato anche l’atto oblativo che Maria fece del Figlio e di sé stessa in unione con Lui sul Golgota. Di conseguenza, anche la presenza materna di Maria ai piedi della Croce ritorna in modo mistico ai piedi di ogni altare. Tutto ciò ha una notevole incidenza nella vita spirituale del cristiano. Scoprire tale presenza significa iniziare a vivere il mistero della Messa ed essere ciò che Maria fu per Gesù.

La libertà è da sempre il vessillo dell’uomo. La si concepisce come giustificazione di tutte le sue scelte, indipendentemente dal fine e dalla legge, o perfino la si nega, riducendola a mera apparenza. Scrivendo ai Galati (cap. 5), San Paolo ci presenta la “vera libertà”: quella che ci è stata donata da Cristo, dall’essere resi giusti in Lui senza aver più bisogno di ricorrere alla Legge o di trovare in essa la salvezza. Che significa? È facile infatti vedere in ciò il manifesto della liberazione cristiana dai precetti morali. San Paolo in realtà insegna che ciò che conta è la fede che opera per mezzo della carità, a patto di non lasciarsi imporre di nuovo il giogo della schiavitù, vivendo secondo la carne.

di P. Serafino M. Lanzetta

Si è riacceso di recente il dibattito sulla corretta interpretazione del Concilio Vaticano II. È vero che ogni concilio porta con sé problemi interpretativi e molto spesso ne apre di nuovi anziché risolvere quelli prefissatisi. Il mistero porta sempre con sé una tensione tra il detto e l’indicibile. Basti rammentare che il problema della consustanzialità del Figlio con il Padre del Concilio di Nicea (325) contro Ario fu stabilita in modo inconcusso solo sessant’anni dopo con il I Concilio di Costantinopoli (385), quando fu definita anche la divinità dello Spirito Santo. Venendo a noi, dopo circa sessant’anni dal Concilio Vaticano II abbiamo non la chiarificazione di qualche dottrina di fede ma un ulteriore obnubilamento. La Dichiarazione di Abu Dhabi (4 febbraio 2019) stabilisce con tutta sicurezza che Dio vuole la pluralità delle religioni come vuole la diversità di colore, di sesso, di razza e di lingua. Al dire di Papa Francesco, sul volo di ritorno dopo la firma del documento, «dal punto di vista cattolico il documento non è andato di un millimetro oltre il Concilio Vaticano II». Certo si tratta più di un legame simbolico con lo spirito del Concilio che echeggia nel testo della Dichiarazione sulla Fratellanza Umana. Eppure un legame c’è e non è certamente l’unico con l’oggi ecclesiale. Segno che tra il Concilio di Nicea a il Vaticano II c’è una differenza che bisogna tener in considerazione.

L’ermeneutica della continuità e della riforma ci ha dato la speranza di poter leggere le dottrine nuove del Vaticano II in continuità con il magistero precedente in nome del principio secondo cui, un concilio, se celebrato con i dovuti crismi canonici, è assistito dallo Spirito Santo. E se l’ortodossia non la si vede la si ricerca. Intanto però già qui si pone un problema non secondario.

Affidarsi all’ermeneutica per risolvere il problema della continuità è già un problema in se stesso. In claris non fit interpretatio, recita un noto adagio, per cui se la continuità non dovesse essere dimostrata con l’interpretazione non ci sarebbe bisogno dell’ermeneutica come tale. La continuità non è evidente, ma va dimostrata o piuttosto interpretata. Dal momento che si fa ricorso all’ermeneutica, ci si immette in un processo crescente di interpretazione della continuità, un processo coinvolgente che non si arresta. Finché ci saranno degli interpreti ci sarà anche il processo interpretativo e ci sarà la possibilità che tale interpretazione sia avvalorata o smentita perché adeguata o pregiudiziale agli occhi dell’interprete successivo.

L’ermeneutica è un processo, è il processo della modernità che pone l’uomo come esistente e lo coglie nel raggio dell’esserci qui ed ora. Eco di ciò è il problema del Concilio che prova a dialogare con la modernità che a sua volta è un processo esistenziale non facilmente risolvibile nei circoli ermeneutici. Se ci si affida solo all’ermeneutica per risolvere il problema della continuità si rischia di avvilupparsi in un sistema che pone la continuità come esistente (o da parte opposta la rottura), ma di fatto non la raggiunge. E non sembra che l’abbiamo raggiunta tutt’oggi, a quasi sessant’anni dal Vaticano II. C’è bisogno non di un’ermeneutica che ci dia la garanzia della continuità, ma di un principio primo che ci dica se l’ermeneutica utilizzata è valida o meno: la fede della Chiesa. Non meraviglia che a tanta distanza dal Vaticano II stiamo ancora disputando sull’ermeneutica della continuità di un concilio rispetto ai precedenti e rispetto alla fede della Chiesa, quando la stessa fede ci ha lasciato da molti anni a questa parte e non accenna per ora a ritornare.

L’ermeneutica della continuità lasciò avvertire qualche scricchiolio sin dall’inizio; più di recente sembra che lo stesso Joseph Ratzinger se ne sia alquanto distanziato. Infatti negli appunti di costui relativi alle radici degli abusi sessuali nella Chiesa (pubblicati in esclusiva per l’Italia dal Corriere della Sera, l’11 aprile 2019), si chiama in causa ripetute volte il Concilio Vaticano II. Con più libertà teologica e non in veste ufficiale, Benedetto XVI addita in una sorta di biblicismo promanante da Dei Verbum la radice dottrinale principale della crisi morale della Chiesa. Nella lotta ingaggiata al Concilio, si provò a liberarsi del fondamento naturale della morale per fondare quest’ultima esclusivamente sulla Bibbia. L’impianto della Costituzione sulla Divina Rivelazione – che non volle far cenno al ruolo della Traditio constitutiva, seppur imperato da Paolo VI – si rifletté nel dettato di Optatam totius 16, che di fatto venne poi declinato con il sospetto nei confronti di una morale presto definita “preconciliare”, spregiativamente identificata come manualistica perché giusnaturalista. Gli effetti negativi di tale riposizionamento non tardarono a farsi sentire e sono ancora sotto i nostri occhi attoniti. Nei medesimi appunti di Ratzinger si legge anche una denuncia della cosiddetta “conciliarità” ertasi come discrimen di ciò che era veramente accettabile e proponibile, fino a portare alcuni vescovi a rifiutare la tradizione cattolica. Nei vari documenti post-conciliari che hanno cercato di correggere il tiro, dando la giusta interpretazione della dottrina, non si è mai preso in seria considerazione questo problema teologico-fondamentale inaugurato dalla “conciliarità”, che difatti apre a tutti gli altri problemi e soprattutto diventa uno spirito libero che si aggira e che sporge sempre rispetto al testo e soprattutto rispetto alla Chiesa. Se ne parlò durante il Sinodo dei Vescovi del 1985, ma non si è mai concretizzato in una chiara presa di distanza.

Il problema ermeneutico del Vaticano II è destinato a non finire se non affrontiamo un punto centrale e radicale da cui dipende la chiara comprensione delle dottrine e la loro valutazione magisteriale. Il Vaticano II si pone come concilio con un fine squisitamente pastorale. Tutti i concili precedenti sono stati pastorali nella misura in cui hanno affermato la verità della fede e hanno combattuto gli errori. Il Vaticano II per un fine pastorale sceglie un metodo nuovo, il metodo appunto pastorale che diventa un vero programma d’azione. Dichiarandolo a più riprese, ma senza mai dare una definizione di cosa intendesse per “pastorale”, il Vaticano II si pone così in modo nuovo rispetto agli altri concili. È il concilio pastorale che più di ogni altro ha proposto nuove dottrine, ma avendo scelto di non definire nuovi dogmi, né di reiterare in modo definitivo alcunché (forse la sacramentalità dell’Episcopato, ma non c’è unanimità). La pastoralità prevedeva un’assenza di condanne e una non definizione della fede, ma solo un modo nuovo di insegnarla per il tempo di oggi. Un modo nuovo che influì sulla formazione di dottrine nuove e viceversa. Un problema che avvertiamo con tutta la sua virulenza oggi, quando si preferisce lasciare la dottrina da parte per motivi pastorali, senza però poter fare a meno di insegnare un’altra dottrina.

Il metodo pastorale (si trattò di metodo) svolge un ruolo di prim’ordine in Concilio. Dirige l’agenda conciliare. Stabilisce ciò che è da essere discusso e di rifare alcuni schemi centrali perché poco pastorali; di tralasciare dottrine comuni (come ad esempio il limbo e l’insufficienza materiale delle Scritture, reiterata dal magistero ordinario dei catechismi) perché ancora disputate e di abbracciare e di insegnare dottrine nuovissime che non godevano di nessuna disputa teologica (come ad esempio la collegialità episcopale e la restaurazione del diaconato permanente uxorato). Addirittura la pastorale viene ad assurgere al rango di costituzione con Gaudium et spes (si era abituati a una costituzione che fosse tale in relazione alla fede), un documento così malmesso da far rizzare i capelli anche a K. Rahner, il quale consiglierà al Card. Döpfner di far dichiarare al testo fin dall’inizio la sua imperfezione. Ciò soprattutto per il fatto che l’ordine creato non appariva finalizzato a Dio. Eppure Rahner era il promotore di una pastorale trascendentale.

Così il Concilio poneva il problema di se stesso, della sua interpretazione, e ciò non a partire dalla fase ricettiva, ma sin dalle discussioni in aula conciliare. Capire il grado di qualificazione teologica delle dottrine conciliari fu impresa non facile agli stessi Padri che ripetutamente ne fecero richiesta alla Segreteria del Concilio. La pastoralità poi entra anche nella redazione del nuovo schema sulla Chiesa. Per molti Padri il mistero della Chiesa (aspetto invisibile) era più ampio del suo manifestarsi storico e gerarchico (aspetto visibile), e ciò fino al punto di ritenere una non co-estensività del Corpo mistico di Cristo con la Chiesa Cattolica Romana. Due Chiese giustapposte? Una Chiesa di Cristo da un lato e la Chiesa Cattolica dall’altro? Questo rischio derivò non dal cambio verbale con il “subsistit in”, ma fondamentalmente dall’aver rinunciato alla dottrina dei membri della Chiesa (si passò dal de membris al de populo) per non offendere i protestanti, membri imperfetti. Oggi sembra che tutti più o meno appartengono alla Chiesa. Se formulassimo una domanda: «I Padri ritengono che il Corpo mistico di Cristo è la Chiesa Cattolica?», molti cosa risponderebbero? Diversi Padri conciliari risposero di no, per questo siamo dove siamo.

Lo spirito del Concilio nasce dunque nel Concilio. Si libra per mezzo del Vaticano II e dei suo testi; è riflesso spesso di un spirito pastorale non chiaramente identificabile, che costruisce o demolisce in nome della conciliarità, cioè spesso del sentire teologico del momento che aveva più presa perché più forte la voce di chi parlava, non tanto attraverso i media, ma in aula e in Commissione dottrinale. Un’ermeneutica che non appura ciò finisce col prestare il fianco a un problema che si aggira tutt’oggi irrisolto: il Vaticano II come assoluto della fede, come identità del cristiano, come passe-partout nella Chiesa “post-conciliare”. La Chiesa è divisa perché dipende dal Concilio e non viceversa. Questo può generare poi un altro problema.

Prima il concilio come assoluto della fede e poi il papa come assoluto della Chiesa difatti sono due facce della stessa medaglia, dello stesso problema di assolutizzare ora l’uno ora l’altro, ma dimenticando che prima c’è la Chiesa, poi il papa con il suo magistero pontificio e poi un concilio con il suo magistero conciliare. Il problema di questi giorni di un papa visto come un assoluto nasce quale eco del concilio come ab-solutus e ciò per il fatto che uno spirito del concilio, cioè l’evento superiore ai testi e soprattutto al contesto, viene enfatizzato come criterio di misura chiave. È un caso che chi cerca di blindare il magistero di Francesco faccia continuo appello al Vaticano II, vedendo le ragioni delle critiche in un rifiuto del Vaticano II? Sta di fatto però che tra Francesco e il Vaticano II c’è piuttosto un legame simbolico e quasi mai testuale. I papi del Concilio e del post-concilio sono santi (o lo saranno presto) mentre la Chiesa langue, piombata in un silente deserto. Questo non ci dice niente?

Quanto poi alle ultime prese di posizione, paradossalmente, non mi sembra che le ragioni di Sua Ecc.za Mons. Viganò e del Card. Brandmüller siano poi così lontane. Viganò preferisce dimenticare il Vaticano II; non pensa che la correzione delle sue dottrine ambigue sia una soluzione perché a suo modo di vedere nel Vaticano II c’è un problema embrionale, un colpo di mano modernista iniziale che ne ha pregiudicato non la validità ma la cattolicità. Brandmüller invece preferisce adottare il metodo della lettura storica dei documenti del Concilio, specialmente per quelle dottrine più difficili da leggere in linea con la Tradizione. Questo gli permette di affermare che documenti come Nostra Aetate, a cui si potrebbe aggiungere anche Unitatis redintegratio e Dignitatis humanae, abbiano ormai solo un interesse storico, anche perché la corretta interpretazione del loro valore teologico è stata data dal magistero successivo, specialmente da Dominus Iesus. Se Viganò preferisce dimenticare il Concilio e Brandmüller suggerisce di storicizzarlo e così di superarlo senza colpo ferire, evitando una correzione magisteriale ad hoc e che si tralasci l’ermeneutica della continuità, sembra che la distanza sia sulle modalità. Tuttavia si potrebbe obiettare che sarà difficile che con la sola ermeneutica storicizzante, quantunque necessaria, in un nuovo Enchiridion dei Concili, aggiornato a questa recente discussione storico-teologica, il Vaticano II appia solo come un concilio dall’interesse storico. E nulla vieterà a un’Abu Dhabi 2.0 di riferirsi esplicitamente a Nostra Aetate, ignorando di nuovo Dominus Iesus, o ad Amoris laetitia di agganciarsi a Gaudium et spes bypassando Humanae vitae. Non si dimentichi che la Scuola di Bologna ha provato a fare qualcosa del genere con il Concilio di Trento, ritenendolo ormai solo un Concilio Generale e non più Ecumenico, di rango inferiore dal punto di vista teologico. Il Vaticano II certo non è Trento, ma ciò solo dal punto di vista teologico e non storico.

Bisogna anche essere consapevoli del fatto che l’ermeneutica storica, che lascia il testo nel suo contesto e alle idee del redattore, si adatta bene al Vaticano II in quanto concilio pastorale pienamente immerso nel suo tempo. La medesima ermeneutica però non funziona con il Concilio di Trento, ad esempio. Se infatti provassimo a storicizzare la dottrina e i canoni del Santo Sacrificio della Messa, ci troveremmo a fare il medesimo lavoro di Lutero rispetto alla tradizione dottrinale e favoriremmo l’opera dei neo-protestanti che vedono nella Messa niente di più che una cena.

Tra queste due posizioni si colloca quella di Mons. Schneider che sembra più percorribile: correggere le espressioni e le dottrine ambigue presenti nei testi conciliari che hanno dato occasione ad innumerevoli errori accumulatisi nel corso di questi anni, non ignorando i tanti insegnamenti virtuosi e profetici, come la santità laicale e il sacerdozio comune dei fedeli. Mons. Schneider indica come “quadratura del cerchio” l’operazione di chi vede tutto in continuità in nome dell’ermeneutica giusta.

Bisognerebbe partire da un sincero atto di umiltà proposto da Mons. Viganò, riconoscendo che ci siamo lasciati ingannare dalla presunzione di risolvere tutti i problemi in nome dell’autorità, sia in buona che in cattiva fede. O l’autorità poggia sulla verità o non sta in piedi. Non si tratta di ripudiare o di cancellare il Vaticano II, che rimane un concilio della Santa Chiesa, ma tutte le storpiature, sia per eccesso che per difetto. Non si tratta neppure di darla vinta ai tradizionalisti, ma di riconoscere la verità. Quando il Vaticano II sarà liberato da tutta la politica che lo circonda allora saremo su una buona strada.

Fonte: Duc in altum, Blog di Aldo Maria Valli

Il “cuore” nella Sacra Scrittura è il centro della persona, lì dove s’incrociano pensieri, desideri, scelte; dove viene concepito il bene e il male. Il «cuore puro», capace di vedere Dio, è il «cuore nuovo» promesso dai profeti quale dono dall’alto per poter vivere finalmente secondo la legge dell’amore di Dio. Questo cuore nuovo è il Cuore di Cristo, centro teandrico del Verbo incarnato, luogo della nostra salvezza e riconciliazione con il Padre. Il Cuore di Cristo è soprattutto simbolo della sua ardente carità, manifestata nel dono dell’Eucaristia, del Sacerdozio e della Vergine Maria. Dal «desiderium desideravi» di Lc 22,15, attraverso quell’«in finem dilexit eos» (Gv 13,1), arriviamo a contemplare questo Cuore totalmente squarciato per noi nel «consummatum est» (Gv 19,30). Questo Cuore rimarrà così per sempre aperto e in attesa.

Buona visione!