Il Vaticano II e il calvario della Chiesa

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di Padre Serafino M. Lanzetta – Anno XVI. 2-2020 – sez. Commentaria – p. 331-338

Si è riacceso di recente il dibattito sulla corretta interpretazione del Concilio Vaticano II1 . È vero che ogni Concilio porta con sé problemi interpretativi e molto spesso ne apre di nuovi anziché risolvere quelli prefissatisi. Il mistero porta sempre con sé una tensione tra il detto e l’indicibile. Basti rammentare che il problema della consustanzialità del Figlio con il Padre del Concilio di Nicea (325) contro Ario fu stabilita in modo inconcusso solo sessant’anni dopo con il I Concilio di Costantinopoli (385), quando fu definita anche la divinità dello Spirito Santo. Venendo a noi, dopo circa sessant’anni dal Concilio Vaticano II, abbiamo non la chiarificazione di qualche dottrina di fede ma un ulteriore obnubilamento. La Dichiarazione di Abu Dhabi (4 febbraio 2019) stabilisce con tutta sicurezza che Dio vuole la pluralità delle religioni come vuole la diversità di colore, di sesso, di razza e di lingua. Al dire di papa Francesco, sul volo di ritorno dopo la firma del documento, «dal punto di vista cattolico il documento non è andato di un millimetro oltre il Concilio Vaticano II». Certo si tratta piuttosto di un legame simbolico con lo spirito del Concilio che echeggia nel testo della Dichiarazione sulla Fratellanza Umana. Ma di fatto un legame c’è e non è certamente l’unico con l’oggi ecclesiale. Perciò, dobbiamo ammettere che tra il Concilio di Nicea e il Vaticano II c’è una differenza che bisogna tenere in considerazione.

L’ermeneutica della continuità e della riforma ci ha dato la speranza di poter leggere le dottrine nuove del Vaticano II in continuità con il Magistero precedente in nome del principio secondo cui un Concilio, se celebrato con i dovuti crismi canonici, è assistito dallo Spirito Santo. E se l’ortodossia non la si vede, la si ricerca. Intanto però già qui si pone un problema non secondario. Affidarsi all’ermeneutica per risolvere il problema della continuità è già un problema in se stesso. In claris non fit interpretatio, recita un noto adagio, per cui se la continuità non necessitasse di essere dimostrata con l’interpretazione, non ci sarebbe bisogno dell’ermeneutica come tale. La continuità non è evidente, ma va dimostrata o piuttosto interpretata. Dal momento che si fa ricorso all’ermeneutica, ci si immette in un processo crescente di interpretazione della continuità, un processo coinvolgente che non si arresta. Finché ci saranno degli interpreti, ci sarà anche il processo interpretativo e ci sarà la possibilità che tale interpretazione sia avvalorata o smentita perché adeguata o pregiudiziale agli occhi dell’interprete successivo.

L’ermeneutica è un processo, è il processo della modernità che pone l’uomo come esistente e lo coglie nel raggio dell’esserci qui ed ora. Eco di ciò è il problema del Concilio che prova a dialogare con la modernità, che a sua volta è un processo esistenziale non facilmente risolvibile nei circoli ermeneutici. Se ci si affida solo all’ermeneutica per risolvere il problema della continuità, si rischia di avvilupparsi in un sistema che pone la continuità come esistente (o da parte opposta la rottura), ma di fatto non la raggiunge. E non sembra che l’abbiamo raggiunta tutt’oggi, a quasi sessant’anni dal Vaticano II. C’è bisogno non di un’ermeneutica che ci dia la garanzia della continuità, ma di un principio primo che ci dica se l’ermeneutica utilizzata è valida o meno: la fede della Chiesa. Non meraviglia che a tanta distanza dal Vaticano II stiamo ancora disputando sull’ermeneutica della continuità di un Concilio rispetto ai precedenti e rispetto alla fede della Chiesa, quando la stessa fede ci ha lasciato da molti anni a questa parte e non accenna per ora a ritornare.

L’ermeneutica della continuità lasciò avvertire qualche scricchiolio sin dall’inizio; più di recente sembra che lo stesso Joseph Ratzinger se ne sia alquanto distanziato. Infatti negli appunti di costui relativi alle radici degli abusi sessuali nella Chiesa (pubblicati in esclusiva per l’Italia dal Corriere della Sera l’11 aprile 2019) si chiama in causa ripetute volte il Concilio Vaticano II. Con più libertà teologica e non in veste ufficiale, Benedetto XVI addita in una sorta di biblicismo promanante da Dei Verbum la radice dottrinale principale della crisi morale della Chiesa. Nella lotta ingaggiata al Concilio, si provò a liberarsi del fondamento naturale della morale per fondare quest’ultima esclusivamente sulla Bibbia. L’impianto della Costituzione sulla Divina Rivelazione – che non volle far cenno al ruolo della Traditio constitutiva, seppur imperato da Paolo VI – si rifletté nel dettato di Optatam totius 16, che di fatto venne poi declinato con il sospetto nei confronti di una morale presto definita “preconciliare”, spregiativamente identificata come manualistica perché giusnaturalista. Gli effetti negativi di tale riposizionamento non tardarono a farsi sentire e sono ancora sotto i nostri occhi attoniti. Nei medesimi appunti di Ratzinger si legge anche una denuncia della cosiddetta “conciliarità” ertasi come discrimen di ciò che era veramente accettabile e proponibile, fino a portare alcuni vescovi a rifiutare la Tradizione cattolica. Nei vari documenti post-conciliari che hanno cercato di correggere il tiro, dando la giusta interpretazione della dottrina, non si è mai preso in seria considerazione questo problema teologico-fondamentale inaugurato dalla “conciliarità”, che difatti apre a tutti gli altri problemi e soprattutto diventa uno spirito libero che si aggira e che sporge sempre rispetto al testo e soprattutto rispetto alla Chiesa. Se ne parlò durante il Sinodo dei Vescovi del 1985, ma non si è mai concretizzato in una chiara presa di distanza.

Il problema ermeneutico del Vaticano II è destinato a non finire se non affrontiamo un punto centrale e radicale da cui dipende la chiara comprensione delle dottrine e la loro valutazione magisteriale. Il Vaticano II si pone come Concilio con un fine squisitamente pastorale. Tutti i Concili precedenti sono stati pastorali nella misura in cui hanno affermato la verità della fede e hanno combattuto gli errori. Il Vaticano II per un fine pastorale sceglie un metodo nuovo, il metodo appunto pastorale che diventa un vero programma d’azione. Dichiarandolo a più riprese, ma senza mai dare una definizione di cosa intendesse per “pastorale”, il Vaticano II si pone così in modo nuovo rispetto agli altri Concili. È il Concilio pastorale che più di ogni altro ha proposto nuove dottrine, ma avendo scelto di non definire nuovi dogmi, né di reiterare in modo definitivo alcunché (forse la sacramentalità dell’Episcopato, ma non c’è unanimità). La pastoralità non prevedeva condanne né una definizione della fede, ma solo un modo nuovo di insegnarla per il tempo di oggi. Un modo nuovo che influì sulla formazione di dottrine nuove e viceversa. Un problema che avvertiamo con tutta la sua virulenza oggi, quando si preferisce lasciare da parte la dottrina per motivi pastorali, senza però poter fare a meno di insegnare un’altra dottrina.

Il metodo pastorale (si trattò di metodo) svolge un ruolo di prim’ordine nel Concilio. Dirige l’agenda conciliare. Stabilisce ciò che deve essere discusso e di rifare alcuni schemi centrali perché poco pastorali; di tralasciare dottrine comuni (come ad esempio il limbo e l’insufficienza materiale delle Scritture, reiterata dal Magistero ordinario dei catechismi) perché ancora disputate e di abbracciare e di insegnare dottrine nuovissime che non godevano di alcuna disputa teologica (come ad esempio la collegialità episcopale e la restaurazione del diaconato permanente uxorato). Addirittura la pastorale viene ad assurgere al rango di Costituzione con Gaudium et spes (si era abituati a una Costituzione che fosse tale in relazione alla Fede); un documento così malmesso da far rizzare i capelli anche a K. Rahner, il quale consiglierà al card. Döpfner di far dichiarare al testo fin dall’inizio la sua imperfezione. Ciò soprattutto per il fatto che l’ordine creato non appariva finalizzato a Dio. Eppure Rahner era il promotore di una pastorale trascendentale.

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1 Questo intervento è stato pubblicato originariamente online, sul blog del vaticanista Aldo Maria Valli, Duc in Altum, il 13 luglio 2020. Ciò in seguito a una nuova discussione sull’ermeneutica conciliare riaccesasi con un intervento di mons. Carlo M. Viganò, Excursus sul Vaticano II e le sue conseguenze, pubblicato sul blog della dott.ssa Maria Guarini, Chiesa e post-concilio, il 9 giugno 2020. Sul blog Duc in Altum, il lettore trova un elenco aggiornato di molti altri interventi pubblicati in merito. Anche sul blog del vaticanista Sandro Magister sono stati ospitati altri articoli, i quali miravano piuttosto a denunciare la visione di mons. Viganò come filo-scismatica e a risolvere i problemi denunciati con l’ermeneutica della continuità.

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