Pubblichiamo l’intervista rilasciata da P. Serafino M. Lanzetta a Radici Cristiane, n. 177, 10/ 2022, in occasione dei 60 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II.

  • Ad ottobre ricorrono i 60 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, evento ancora oggi tanto discusso…  Cosa rappresentò, in realtà, quel Concilio?

Il Vaticano II ha aperto un dibattito teologico – politico per molti versi – che credo non avrà fine se non per mezzo di un intervento straordinario del Romano Pontefice che dica in modo chiaro e senza più ammettere ermeneutiche diverse e contrastanti che cosa è da ritenersi perché cattolico, che cosa invece bisogna accantonare perché ambiguo e perciò pericoloso per la fede e che cosa infine necessita di un ulteriore sviluppo teologico. Sempre nei concili ci sono stati dei gruppi che si contendevano il diritto di dire la parola definitiva, ma ciò non fu mai possibile perché, al di là delle scuole di teologia che li animavano, erano tutti consapevoli che c’era un principio superiore da invocare e da seguire: la fede della Chiesa così come trasmessa dagli Apostoli. A Nicea, ad esempio, i membri del Concilio furono definiti per la prima volta “Padri” perché erano stati convocati per generare i credenti alla vera fede. Il Vaticano II preferì seguire un’altra strada: non calare le cose dall’alto in modo deduttivistico e intransigente, con il pericolo di condannare, ma far sì che, con metodo più induttivo, le cose da insegnare si formassero dal basso, con il dialogo. Il magistero, il cui compito è essenzialmente quello di insegnare la dottrina di fede e di morale («euntes ergo docete», Mt 28,19), proteggendola dagli errori, si travasò, per volere di Giovanni XXIII, in un ruolo più pastorale, di annuncio e di misericordia. Così il Papa divenne più pastore e i pastori (e i teologi) divennero più papi. Di qui il conflitto ermeneutico che non avrà fine, ma che troverà sempre una scuola teologica che è più pastorale di un’altra e quindi più conciliare. Con più diritto di cittadinanza e con più autorità. Stranamente a sessant’anni dall’inizio del Vaticano II siamo di nuovo come ai primi anni post-conciliari, dove il cattolico o era “figlio del Concilio” o non era cattolico. La fede sembra che non ci interessi più di tanto.

  • Si disse di volerlo come un Concilio “pastorale”. E’ riuscito quell’intento? E perché non optare per un Concilio “dogmatico”?

Concilio con una forma di esposizione più pastorale o magistero conciliare «la cui indole è prevalentemente pastorale» (per dirla con la Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni XXIII) è certamente più orecchiabile ma non per questo meno problematico. Non si rifiutò di insegnare la dottrina di fede e di morale, ma siccome il fine che ci si prefiggeva era eminentemente pastorale, si insegnò molte dottrine nuove (con scarso consenso teologico: una tra tutte la collegialità) e si tralasciò quelle più antiche ma ostiche al nuovo corso (si pensi alla dottrina dei membri della Chiesa). Si provò poi a coniugare la costituzionalità della fede, come normalmente avveniva in un concilio, con la pastoralità dell’approccio nei confronti del mondo moderno e si ebbe la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo di oggi, Gaudium et spes. Perfino K. Rahner, ideatore della svolta antropologica in nome della filosofia kantiana e heiddegeriana, ebbe da ridire e bocciò lo schema XIII che diventerà Gaudium et spes. A suo giudizio questa costituzione rappresentava un pericolo per la fede: non era messo ben in luce il rapporto tra piano naturale e piano soprannaturale. Sembrava che il Concilio volesse santificare il “mondo di oggi”, senza più lo scandalo della Croce e la verità del peccato. Qui abbiamo uno spaccato del problema della pastoralità del Vaticano II: dire molto, molto di più dei precedenti concili, ma senza risultare troppo dogmatici, angusti, intolleranti. Un concilio più dogmatico avrebbe impedito, ad esempio, che si approvasse Gaudium et spes così come venne presentata in aula, o che si insegnasse un concetto di libertà religiosa così problematico con una semplice dichiarazione. La pastoralità del Concilio fu anche e soprattutto libertà di esprimersi, non in modo definitivo, ma in qualche modo infallibile – come venne per lo più percepito, sia a destra che a sinistra – perché conciliare. “Conciliare” divenne l’aggettivo più gettonato, sinonimo non solo di infallibilità ma anche di Zeitgeist.

  • Dai lavori del Concilio è emersa chiaramente un’eterogeneità netta, per certi versi drammatica, di intenti e fini da parte dei Padri Conciliari, segno di un fermento all’interno della Chiesa, che partiva da lontano e di cui il Concilio fu in qualche modo “vetrina”, ma non origine… È d’accordo?

Certo, i fermenti di rinnovamento conciliare vanno ravvisati non nel Vaticano II ma prima e soprattutto nello sforzo teologico di alcune correnti di riannodare i fili con la modernità puntando a una nuova comprensione del rapporto tra natura e grazia. La modernità la si volle non soggettivista e atea (nel senso della risoluzione di Dio in un ottativo del cuore umano, passando attraverso la sua trasformazione in un mero a-priori morale e poi in un’idea dello spirito) ma differentemente credente. La critica si attestò sulla divina Rivelazione considerata ancora troppo estrinseca all’uomo, dovendo questi accoglierla con l’ausilio di segni e di parole. Verso la fine del XIX secolo, si levò forte la critica del filosofo francese Maurice Blondel che rifiutò il presunto “estrinsecismo” della Neoscolastica. Tale critica fu ripresa sin dagli anni ’30 dalla cosiddetta “nouvelle théologie” da autori come Henri de Lubac con il libro Surnaturel (1946) e in maniera diversa dalla teologia trascendentale di Karl Rahner. Gli esponenti di questa “nuova teologia” parteciparono in qualità di periti al Vaticano II. De Lubac rigettava il concetto di natura pura (Dio avrebbe potuto creare l’uomo anche senza ammetterlo alla visione beatifica) utile per postulare una distinzione necessaria con la grazia, non dovuta ma elargita da Dio all’uomo per un fine misericordioso. Per de Lubac non c’è un fine naturale e soprannaturale dell’uomo, ma un unico fine che è necessariamente soprannaturale. Di più, il desiderio della visione di Dio, per il gesuita francese, è costitutivo dell’essere dell’uomo. Così la natura si soprannaturalizza. Con quali conseguenze? Si vuole un rapporto nuovo e necessario tra Chiesa e società. La Chiesa è parte della società e viceversa. L’allontanamento della Chiesa dal mondo in nome di un’ipotesi di natura pura (sempre difesa dalla tradizione teologica e ultimamente da Pio XII) avrebbe causato la secolarizzazione. In modo diverso e mediante il concetto di “soprannaturale esistenziale” anche Rahner salda la natura con la grazia così da non poter avere un uomo che, come tale, non sia abitato, anche se ancora o solo atematicamente, dalla grazia. Dio e l’uomo, il sacro e il profano, si uniscono (e si mescolano?) in modo infallibile. Il Vaticano II proverà a studiare un approccio nuovo al mondo, con una Chiesa ridisegnata ad intra e poi necessariamente ad extra.

  • Quali i “frutti” di quel Concilio? Quali conseguenze ha portato oggi? E’ riuscito davvero, come si sostenne all’epoca, ad avvicinare società e Chiesa?

Ci sono stati sicuramente dei bei frutti. Penso alla partecipazione così ampia dei Padri, la più numerosa della storia della Chiesa. Partecipazione che è stata segno di un chiaro desiderio di voler contribuire al bene della Chiesa e dei fedeli. Tutto era volto ad offrire un contributo dottrinale e missionario per un risveglio della Chiesa e della fede nel cuore dei credenti. Tante nuove Chiese locali hanno un proprio vescovo e la coscienza dei fedeli è più viva quanto alla loro necessaria cooperazione alla missione della Chiesa. Tuttavia bisogna guardare all’insieme, alle intenzioni e ai fini raggiunti. Ci fu un grande zelo missionario. Rahner diceva che il Vaticano II era stato il concilio più missionario della storia per il fatto di aver radunato i Padri da tutti i continenti. Però ci si scontra con un fatto: mai la missione della Chiesa ha conosciuto una battuta d’arresto così come a partire dal Vaticano II. Se la grazia è intrinseca all’uomo, alla società e al mondo, che bisogno c’è di evangelizzare e di convertire a Cristo? Si è avvertito invece il bisogno di rendere il sacro più profano, di desacralizzarlo in nome dell’uomo. Poi si è giunti a parlare di un “nuovo umanesimo”, senza Cristo. Se la natura si soprannaturalizza, il soprannaturale si naturalizza. La società cristiana non solo non c’è più ma non è più necessaria. Sarà perciò necessaria la famiglia cristiana numerosa, dove il matrimonio è per la vita e per i figli? Un discorso chiaro che condannasse la contraccezione fu evitato da Gaudium et spes. Fu rimandato a uno studio successivo e divenne il rompicapo di pastori che inveirono contro Humanae vitae in nome dell’apertura conciliare. Paolo VI si trovò, mai come allora, tra l’incudine e il martello. Nuovi metodi di evangelizzazione sono stati messi a punto dopo il Vaticano II e ai nostri tempi, ma molti sembrano soffrire di un medesimo malumore: si prova a rilanciare con metodologie varie la missionarietà della Chiesa adottando teologie che hanno contribuito ad affondarla, in un clima di declino della fede e con una tendenza autodistruttiva. Non si può trasmettere ciò che non si ha. Se la Chiesa non cresce con la predicazione e la conversione di nuove genti va verso la sua sparizione. Se non ci si decide a cambiare rotta tra non molto saremo mussulmani.

  • Fu, a Suo giudizio, più un Concilio di “ideali” o di “ideologie”?

Ci furono molte idee che furono soprattutto ideali da raggiungere. Quando le idee però non sono ben setacciate e rimangono solo ideali si possono facilmente trasformare in ideologie. Eccone una: l’ottimismo secondo cui gli uomini moderni con cui si instaurava il dialogo erano così navigati in fatto di umanità che cominciavano ad auto-redimersi dagli errori. Credo che il Vaticano II sia anche un problema anagrafico.

  • Che bilancio trarre sul Concilio Vaticano II?

Credo che si tratti, oggi più che ieri, di riportare il Vaticano II nei suoi argini, nel perimetro del mistero-Chiesa. Cioè di ben delineare i confini di un concilio all’interno della Chiesa, chiarendo che prima c’è la Chiesa con la sua costante Tradizione e poi un concilio che esplicita, chiarisce e approfondisce la Tradizione, ma mai ponendovisi contro, o addirittura ergendosi come “nuovo inizio”. C’è un assunto che bisognerebbe correggere: chi è critico del Vaticano II è contro la Chiesa o è addirittura fuori della Chiesa. Quasi come se Chiesa e Vaticano II si identificassero. Invece, c’è una distinzione e una priorità ontologica del mistero rispetto al magistero, per quanto solenne o straordinario lo si voglia. Il magistero solenne o straordinario del Vaticano II, poi, non può essere equiparato (in quanto magistero) al magistero del Concilio Vaticano I. La scelta di insegnare, ad esempio, che non c’è tanta differenza tra il Dio Unitrino e il Dio dei mussulmani (entrambi converrebbero nella unicità, dimenticando che la Trinità non è un’aggiunta dall’esterno ma sostanzialmente ciò che Dio è; i mussulmani adorano l’unico Creatore ma non conoscono ancora il vero Dio rivelato) solo con una dichiarazione, Nostra aetate, ci dice due cose: che l’insegnamento è nuovo, in qualche modo azzardato, e che la forma è pastorale, non strettamente dogmatica, perciò dalle maglie molto ampie. Dire “pastorale” non significa sminuire il dettato conciliare, ma appurare de facto ciò che il Concilio volle per rendere in qualche modo le scelte più condivise, l’approvazione dei documenti più spedita e unanime. Evidentemente ciò apre al problema ermeneutico, provocando una disputa interminabile tra i teologi che ancora si accapigliano per distinguere fino a che punto l’insegnamento è tradizionale o fino a che punto è super-dottrinale perché conciliare a modo del Vaticano II. Il pontificato di Francesco ha dato una spinta decisiva e forse completiva verso la direzione dello spirito del Concilio. Francesco non ama citare i testi magisteriali del Vaticano II ma si appella alla sua autorità per blindare le riforme dottrinali da lui volute in campo liturgico o morale. Eppure questo modus operandi risulta provvidenziale perché dice fino a che punto ci si può spingere con libertà nell’ermeneutica dell’ultimo concilio, mettendo tra parentesi la posizione che vede nella scorretta ermeneutica l’unico problema del Vaticano II. L’ermeneutica pone il problema non lo risolve. Non è più possibile occultare un’assenza di chiarezza di fondo “spiegandola” con l’interpretazione. Forse un giorno, non così lontano, qualcuno si accorgerà che il problema è più complesso. Quando tutti si saranno risvegliati dal grande sogno primaverile si accorgeranno che c’è un elefante nella stanza (the elephant in the room), come dicono gli inglesi.

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