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Pubblichiamo l’intervista rilasciata da P. Serafino M. Lanzetta a Radici Cristiane, n. 177, 10/ 2022, in occasione dei 60 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II.

  • Ad ottobre ricorrono i 60 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, evento ancora oggi tanto discusso…  Cosa rappresentò, in realtà, quel Concilio?

Il Vaticano II ha aperto un dibattito teologico – politico per molti versi – che credo non avrà fine se non per mezzo di un intervento straordinario del Romano Pontefice che dica in modo chiaro e senza più ammettere ermeneutiche diverse e contrastanti che cosa è da ritenersi perché cattolico, che cosa invece bisogna accantonare perché ambiguo e perciò pericoloso per la fede e che cosa infine necessita di un ulteriore sviluppo teologico. Sempre nei concili ci sono stati dei gruppi che si contendevano il diritto di dire la parola definitiva, ma ciò non fu mai possibile perché, al di là delle scuole di teologia che li animavano, erano tutti consapevoli che c’era un principio superiore da invocare e da seguire: la fede della Chiesa così come trasmessa dagli Apostoli. A Nicea, ad esempio, i membri del Concilio furono definiti per la prima volta “Padri” perché erano stati convocati per generare i credenti alla vera fede. Il Vaticano II preferì seguire un’altra strada: non calare le cose dall’alto in modo deduttivistico e intransigente, con il pericolo di condannare, ma far sì che, con metodo più induttivo, le cose da insegnare si formassero dal basso, con il dialogo. Il magistero, il cui compito è essenzialmente quello di insegnare la dottrina di fede e di morale («euntes ergo docete», Mt 28,19), proteggendola dagli errori, si travasò, per volere di Giovanni XXIII, in un ruolo più pastorale, di annuncio e di misericordia. Così il Papa divenne più pastore e i pastori (e i teologi) divennero più papi. Di qui il conflitto ermeneutico che non avrà fine, ma che troverà sempre una scuola teologica che è più pastorale di un’altra e quindi più conciliare. Con più diritto di cittadinanza e con più autorità. Stranamente a sessant’anni dall’inizio del Vaticano II siamo di nuovo come ai primi anni post-conciliari, dove il cattolico o era “figlio del Concilio” o non era cattolico. La fede sembra che non ci interessi più di tanto.

  • Si disse di volerlo come un Concilio “pastorale”. E’ riuscito quell’intento? E perché non optare per un Concilio “dogmatico”?

Concilio con una forma di esposizione più pastorale o magistero conciliare «la cui indole è prevalentemente pastorale» (per dirla con la Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni XXIII) è certamente più orecchiabile ma non per questo meno problematico. Non si rifiutò di insegnare la dottrina di fede e di morale, ma siccome il fine che ci si prefiggeva era eminentemente pastorale, si insegnò molte dottrine nuove (con scarso consenso teologico: una tra tutte la collegialità) e si tralasciò quelle più antiche ma ostiche al nuovo corso (si pensi alla dottrina dei membri della Chiesa). Si provò poi a coniugare la costituzionalità della fede, come normalmente avveniva in un concilio, con la pastoralità dell’approccio nei confronti del mondo moderno e si ebbe la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo di oggi, Gaudium et spes. Perfino K. Rahner, ideatore della svolta antropologica in nome della filosofia kantiana e heiddegeriana, ebbe da ridire e bocciò lo schema XIII che diventerà Gaudium et spes. A suo giudizio questa costituzione rappresentava un pericolo per la fede: non era messo ben in luce il rapporto tra piano naturale e piano soprannaturale. Sembrava che il Concilio volesse santificare il “mondo di oggi”, senza più lo scandalo della Croce e la verità del peccato. Qui abbiamo uno spaccato del problema della pastoralità del Vaticano II: dire molto, molto di più dei precedenti concili, ma senza risultare troppo dogmatici, angusti, intolleranti. Un concilio più dogmatico avrebbe impedito, ad esempio, che si approvasse Gaudium et spes così come venne presentata in aula, o che si insegnasse un concetto di libertà religiosa così problematico con una semplice dichiarazione. La pastoralità del Concilio fu anche e soprattutto libertà di esprimersi, non in modo definitivo, ma in qualche modo infallibile – come venne per lo più percepito, sia a destra che a sinistra – perché conciliare. “Conciliare” divenne l’aggettivo più gettonato, sinonimo non solo di infallibilità ma anche di Zeitgeist.

  • Dai lavori del Concilio è emersa chiaramente un’eterogeneità netta, per certi versi drammatica, di intenti e fini da parte dei Padri Conciliari, segno di un fermento all’interno della Chiesa, che partiva da lontano e di cui il Concilio fu in qualche modo “vetrina”, ma non origine… È d’accordo?

Certo, i fermenti di rinnovamento conciliare vanno ravvisati non nel Vaticano II ma prima e soprattutto nello sforzo teologico di alcune correnti di riannodare i fili con la modernità puntando a una nuova comprensione del rapporto tra natura e grazia. La modernità la si volle non soggettivista e atea (nel senso della risoluzione di Dio in un ottativo del cuore umano, passando attraverso la sua trasformazione in un mero a-priori morale e poi in un’idea dello spirito) ma differentemente credente. La critica si attestò sulla divina Rivelazione considerata ancora troppo estrinseca all’uomo, dovendo questi accoglierla con l’ausilio di segni e di parole. Verso la fine del XIX secolo, si levò forte la critica del filosofo francese Maurice Blondel che rifiutò il presunto “estrinsecismo” della Neoscolastica. Tale critica fu ripresa sin dagli anni ’30 dalla cosiddetta “nouvelle théologie” da autori come Henri de Lubac con il libro Surnaturel (1946) e in maniera diversa dalla teologia trascendentale di Karl Rahner. Gli esponenti di questa “nuova teologia” parteciparono in qualità di periti al Vaticano II. De Lubac rigettava il concetto di natura pura (Dio avrebbe potuto creare l’uomo anche senza ammetterlo alla visione beatifica) utile per postulare una distinzione necessaria con la grazia, non dovuta ma elargita da Dio all’uomo per un fine misericordioso. Per de Lubac non c’è un fine naturale e soprannaturale dell’uomo, ma un unico fine che è necessariamente soprannaturale. Di più, il desiderio della visione di Dio, per il gesuita francese, è costitutivo dell’essere dell’uomo. Così la natura si soprannaturalizza. Con quali conseguenze? Si vuole un rapporto nuovo e necessario tra Chiesa e società. La Chiesa è parte della società e viceversa. L’allontanamento della Chiesa dal mondo in nome di un’ipotesi di natura pura (sempre difesa dalla tradizione teologica e ultimamente da Pio XII) avrebbe causato la secolarizzazione. In modo diverso e mediante il concetto di “soprannaturale esistenziale” anche Rahner salda la natura con la grazia così da non poter avere un uomo che, come tale, non sia abitato, anche se ancora o solo atematicamente, dalla grazia. Dio e l’uomo, il sacro e il profano, si uniscono (e si mescolano?) in modo infallibile. Il Vaticano II proverà a studiare un approccio nuovo al mondo, con una Chiesa ridisegnata ad intra e poi necessariamente ad extra.

  • Quali i “frutti” di quel Concilio? Quali conseguenze ha portato oggi? E’ riuscito davvero, come si sostenne all’epoca, ad avvicinare società e Chiesa?

Ci sono stati sicuramente dei bei frutti. Penso alla partecipazione così ampia dei Padri, la più numerosa della storia della Chiesa. Partecipazione che è stata segno di un chiaro desiderio di voler contribuire al bene della Chiesa e dei fedeli. Tutto era volto ad offrire un contributo dottrinale e missionario per un risveglio della Chiesa e della fede nel cuore dei credenti. Tante nuove Chiese locali hanno un proprio vescovo e la coscienza dei fedeli è più viva quanto alla loro necessaria cooperazione alla missione della Chiesa. Tuttavia bisogna guardare all’insieme, alle intenzioni e ai fini raggiunti. Ci fu un grande zelo missionario. Rahner diceva che il Vaticano II era stato il concilio più missionario della storia per il fatto di aver radunato i Padri da tutti i continenti. Però ci si scontra con un fatto: mai la missione della Chiesa ha conosciuto una battuta d’arresto così come a partire dal Vaticano II. Se la grazia è intrinseca all’uomo, alla società e al mondo, che bisogno c’è di evangelizzare e di convertire a Cristo? Si è avvertito invece il bisogno di rendere il sacro più profano, di desacralizzarlo in nome dell’uomo. Poi si è giunti a parlare di un “nuovo umanesimo”, senza Cristo. Se la natura si soprannaturalizza, il soprannaturale si naturalizza. La società cristiana non solo non c’è più ma non è più necessaria. Sarà perciò necessaria la famiglia cristiana numerosa, dove il matrimonio è per la vita e per i figli? Un discorso chiaro che condannasse la contraccezione fu evitato da Gaudium et spes. Fu rimandato a uno studio successivo e divenne il rompicapo di pastori che inveirono contro Humanae vitae in nome dell’apertura conciliare. Paolo VI si trovò, mai come allora, tra l’incudine e il martello. Nuovi metodi di evangelizzazione sono stati messi a punto dopo il Vaticano II e ai nostri tempi, ma molti sembrano soffrire di un medesimo malumore: si prova a rilanciare con metodologie varie la missionarietà della Chiesa adottando teologie che hanno contribuito ad affondarla, in un clima di declino della fede e con una tendenza autodistruttiva. Non si può trasmettere ciò che non si ha. Se la Chiesa non cresce con la predicazione e la conversione di nuove genti va verso la sua sparizione. Se non ci si decide a cambiare rotta tra non molto saremo mussulmani.

  • Fu, a Suo giudizio, più un Concilio di “ideali” o di “ideologie”?

Ci furono molte idee che furono soprattutto ideali da raggiungere. Quando le idee però non sono ben setacciate e rimangono solo ideali si possono facilmente trasformare in ideologie. Eccone una: l’ottimismo secondo cui gli uomini moderni con cui si instaurava il dialogo erano così navigati in fatto di umanità che cominciavano ad auto-redimersi dagli errori. Credo che il Vaticano II sia anche un problema anagrafico.

  • Che bilancio trarre sul Concilio Vaticano II?

Credo che si tratti, oggi più che ieri, di riportare il Vaticano II nei suoi argini, nel perimetro del mistero-Chiesa. Cioè di ben delineare i confini di un concilio all’interno della Chiesa, chiarendo che prima c’è la Chiesa con la sua costante Tradizione e poi un concilio che esplicita, chiarisce e approfondisce la Tradizione, ma mai ponendovisi contro, o addirittura ergendosi come “nuovo inizio”. C’è un assunto che bisognerebbe correggere: chi è critico del Vaticano II è contro la Chiesa o è addirittura fuori della Chiesa. Quasi come se Chiesa e Vaticano II si identificassero. Invece, c’è una distinzione e una priorità ontologica del mistero rispetto al magistero, per quanto solenne o straordinario lo si voglia. Il magistero solenne o straordinario del Vaticano II, poi, non può essere equiparato (in quanto magistero) al magistero del Concilio Vaticano I. La scelta di insegnare, ad esempio, che non c’è tanta differenza tra il Dio Unitrino e il Dio dei mussulmani (entrambi converrebbero nella unicità, dimenticando che la Trinità non è un’aggiunta dall’esterno ma sostanzialmente ciò che Dio è; i mussulmani adorano l’unico Creatore ma non conoscono ancora il vero Dio rivelato) solo con una dichiarazione, Nostra aetate, ci dice due cose: che l’insegnamento è nuovo, in qualche modo azzardato, e che la forma è pastorale, non strettamente dogmatica, perciò dalle maglie molto ampie. Dire “pastorale” non significa sminuire il dettato conciliare, ma appurare de facto ciò che il Concilio volle per rendere in qualche modo le scelte più condivise, l’approvazione dei documenti più spedita e unanime. Evidentemente ciò apre al problema ermeneutico, provocando una disputa interminabile tra i teologi che ancora si accapigliano per distinguere fino a che punto l’insegnamento è tradizionale o fino a che punto è super-dottrinale perché conciliare a modo del Vaticano II. Il pontificato di Francesco ha dato una spinta decisiva e forse completiva verso la direzione dello spirito del Concilio. Francesco non ama citare i testi magisteriali del Vaticano II ma si appella alla sua autorità per blindare le riforme dottrinali da lui volute in campo liturgico o morale. Eppure questo modus operandi risulta provvidenziale perché dice fino a che punto ci si può spingere con libertà nell’ermeneutica dell’ultimo concilio, mettendo tra parentesi la posizione che vede nella scorretta ermeneutica l’unico problema del Vaticano II. L’ermeneutica pone il problema non lo risolve. Non è più possibile occultare un’assenza di chiarezza di fondo “spiegandola” con l’interpretazione. Forse un giorno, non così lontano, qualcuno si accorgerà che il problema è più complesso. Quando tutti si saranno risvegliati dal grande sogno primaverile si accorgeranno che c’è un elefante nella stanza (the elephant in the room), come dicono gli inglesi.

di P. Serafino Maria Lanzetta

Le testimonianze della tradizione

Nei Vangeli abbiamo pochi dati storici sulla nascita di Gesù ma sufficienti per custodire il mistero. Da Matteo e Luca apprendiamo che Gesù nacque a Betlemme di Giuda (cfr. Mt 2,1; Lc 2,4). Solo da San Luca sappiamo che non c’era posto “nella locanda” (o “nell’alloggio”) e che, per questo motivo, il bambino fu avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia (cfr. Lc 2,4-7). La visione tradizionale ritiene che Gesù sia nato in una grotta. L’unico riferimento biblico letterale è il fatto che Nostro Signore fu deposto in una “mangiatoia” (cfr. Lc 2,7: phátne). Tuttavia, ci sono testimonianze storiche dei primi Padri della Chiesa sulla nascita di Gesù in una grotta: San Giustino Martire (150 d.C.), secondo il quale Gesù è nato in una grotta utilizzata come stalla, anche se non proprio la tipica stalla in pietra e legno così familiare nella nostra arte cristiana; poi Origene (250 d.C.) e San Girolamo (325 d.C.). Nel 335 d.C. l’imperatore Costantino costruì la Basilica della Natività nel luogo in cui era stata individuata la grotta della natività di Gesù a Betlemme, grazie alle testimonianze storiche di questi primi Padri della Chiesa.

Formuliamo un’ipotesi che ci accingiamo a discutere: se la grotta della nascita di Gesù a Betlemme, su cui è stata costruita la Basilica della Natività, e che prima, nel 130 d.c., l’imperatore pagano Adriano, cercando di profanare i luoghi santi ebraici e cristiani in Palestina, aveva ironicamente contribuito a conservarne l’identità, non dovesse più essere il luogo della nascita di Nostro Signore alla luce di una nuova scoperta esegetica, questa nuova posizione potrebbe semplicemente mettere in discussione l’ormai plurisecolare accoglienza dell’autenticità storica di un sito così antico? Il nocciolo della questione, su cui penderebbe l’intera vicenda, è una diversa traduzione di una sola parola. Sarebbe ciò sufficiente per rinunciare all’assunto tradizionale?

Non c’era posto nella stanza degli ospiti?

Perché formuliamo quest’ipotesi? Più recentemente, a partire in particolare dagli studi di Kenneth Bailey (1930-2016, ministro presbiteriano, autore prolifico negli studi sul Medioriente nel Nuovo Testamento mediorientale), in particolare nella sua opera intitolata Jesus Through Middle Eastern Eyes. Cultural Studies in the Gospel (2008), la visione classica del luogo della nascita di Gesù è stata messa in discussione, favorendo una nuova teoria: Gesù sarebbe nato in una normale abitazione del tempo. Bailey segue l’interpretazione di Alfred Plummer (1841-1926, ecclesiastico e biblista della Chiesa Anglicana), nella sua opera Gospel According to St Luke, 5th ed., International Critical Commentary (1922).

Diversi argomenti sono portati a sostegno di questa nuova teoria. Innanzitutto il fatto che sarebbe stato quasi impossibile per Giuseppe, della casa di Davide, non trovare un luogo accogliente a Betlemme, città regale, dove Maria sua sposa avesse potuto partorire. Sarebbe stato impensabile che, bussando a qualsiasi porta e recitando la genealogia regale, non avesse trovato ospitalità per la notte. Questa manifesta incongruenza conduce a un secondo e più importante argomento esegetico. La parola usata da Luca per indicare la locanda in cui non c’era posto per la Sacra Famiglia è katáluma (da katá lúo) che significa sciogliere o slegare, cioè disarcionare i cavalli e slegare il proprio bagaglio, che quindi può alludere a un generico alloggio per uomini e bestiame. In effetti, alcuni autori, come Joseph Fitzmeyer SJ, in The Gospel according to Luke I-IX (1970), traducono katáluma con il termine generico di luogo ospitale (“lodge”), una sorta di caravanserraglio. Per Raymond E. Brown, nella sua opera The Birth of the Messiah (1977), Luca sembra più interessato a dire al suo pubblico dove Maria depose il bambino appena nato. Il fatto di ripetere per tre volte i dettagli relativi alle fasce e alla mangiatoia (cf. Lc 2,7.12.16) deve avere un significato notevole, soprattutto per il fatto che questa condizione unica si contrappone alla mancanza di spazio nell’alloggio. La menzione dell’alloggio è di secondaria importanza; non è il punto centrale, anche se per Brown, che conduce la sua ricerca con puro metodo storico-critico, “se la mangiatoia era antecedente a quella lucana nella tradizione, la mancanza di posto nell’alloggio può essere stata una vaga supposizione di Luca, per spiegare l’uso della mangiatoia”[1].  E se invece fosse il resoconto storico di ciò che è realmente accaduto? Perché escluderlo a priori? La tentazione di spiegare la nascita di Nostro Signore con i suoi vari elementi suggestivi come Midrash (interpretare o commentare una parola o un evento dell’Antico Testamento riprodotto nel Nuovo in virtù di una lettura teologica dell’evangelista, ma priva di alcun fondamento storico) è molto forte. Eppure, bisogna ricordare che la nascita di Nostro Signore, così come viene raccontata nei Vangeli, è unica nel suo genere. Ciò che Scott Hahn e Curtis Mitch dicono del Vangelo di Matteo può essere applicato anche a quello di Luca:

A differenza del midrash, la storia di Gesù dell’evangelista non si fonda su un testo dell’Antico Testamento. Mentre il midrash cerca di estrarre i significati più profondi dell’Antico Testamento, Matteo non cerca di interpretare l’Antico Testamento per se stesso. Più precisamente, Matteo non sta raccontando episodi dell’Antico Testamento, ma una storia completamente nuova! È una storia con nuovi personaggi ed eventi; è una storia che potrebbe stare in piedi da sola, a prescindere dalle sue citazioni dell’Antico Testamento. Matteo utilizza l’Antico Testamento per illuminare il significato della nascita di Gesù, non per determinarne in anticipo la trama e l’esito[2].

È vero, tuttavia, che quando Luca menziona una vera e propria “locanda”, nella parabola del buon samaritano che si prende cura di quell’uomo incappato tra i briganti (Lc 10,34), usa un altro termine, pandocheîon, che indica una locanda commerciale, dove generalmente venivano accolti viaggiatori e ospiti. Katáluma, più specificamente, è la parola che indica la “stanza superiore” dove Gesù celebra l’Ultima Cena con i suoi discepoli (Marco 14,14 e Luca 22,11; Matteo non menziona la stanza superiore). Si tratta chiaramente di una sala di ricevimento/stanza per ospiti in un’abitazione privata. La lettura di katáluma come “stanza degli ospiti” è qui preferita per il fatto che nel Vangelo di Luca due elementi già incontrati starebbero in contrapposizione tra loro: phátne e katáluma, potendo indicare quest’ultimo, ancora più genericamente, uno spazio in qualsiasi tipo di struttura. Quindi, la conclusione è che siccome non c’era posto nella stanza destinata agli ospiti, è molto probabile che Maria e Giuseppe siano stati ospitati nell’unica stanza destinata alla famiglia, che fungeva da soggiorno e da stanza da letto, dove c’era spazio anche per gli animali, sfamati in una o più mangiatoie incavate nel pavimento o costruite come elementi indipendenti. Maria avrebbe quindi partorito Gesù nel mezzo di una casa affollata, alla presenza di ospiti e familiari, anche se solo le donne, che fungevano anche da levatrici, erano ammesse al momento del parto. I pastori sarebbero arrivati e avrebbero trovato un’atmosfera familiare di festa, tale da poter annunciare subito la buona novella a tutte le persone lì riunite. Bailey conclude così le sue analisi:

I nostri presepi natalizi rimangono come sono perché “il bue e l’asino davanti a lui si inchinano, / ora che è nella mangiatoia”. Ma la mangiatoia era in una casa calda e accogliente, non in una stalla fredda e solitaria. Guardare la storia in questa luce elimina gli strati di mitologia interpretativa che si sono accumulati intorno ad essa. Gesù è nato in una semplice casa di villaggio con due stanze, come quella che il Medio Oriente conosce da almeno tremila anni. È vero, riscriviamo le nostre commedie natalizie, ma nel riscriverle la storia viene arricchita, non sminuita[3].

Alcuni principi della fede facilmente trascurati

In realtà, seguendo questa teoria, apparentemente convincente, che mira soprattutto a confortare Gesù e i santi Sposi liberandoli da una situazione di freddo isolamento come quello raffigurato dalla Tradizione, ci sono delle verità fondamentali della fede che rischiano di essere messe in discussione, quantunque in modo velato. Dovrebbe essere una preoccupazione per tutti i cristiani e non solo dei cattolici. Innanzitutto, chiediamoci, quale sarebbe il “segno” della nascita miracolosa del Messia, vero Dio e vero Uomo, se l’ambiente fosse quello di una normale abitazione, dove l’atmosfera di gioia e di festa promana dal festoso raduno di parenti e conoscenti venuti a Betlemme per il censimento più che per la nascita del Messia? Gesù sarebbe stato il protagonista del Natale in quella casa affollata? Il “segno” della sua nascita esprime il miracolo, deve essere trascendente e al tempo stesso comprensibile sia ai semplici che ai dotti, a tutti.

Il segno dato era “un bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia” (cfr. Lc 2, 11). Una mangiatoia all’interno del soggiorno di casa rappresenterebbe piuttosto un luogo ordinario in cui venivano custoditi gli animali e non indicherebbe nulla di speciale, al di là del suo significato immediato e tangibile. Se gli abitanti di Betlemme erano così ospitali, perché non offrire a quel Bimbo anche un luogo più confortevole, un semplice cuscino su cui adagiarlo, piuttosto che un incavo nel pavimento? Ma ciò che più stride con il racconto evangelico è il fatto che quando i pastori arrivarono non trovarono una calca di gente, ma semplicemente coloro che sono con il Bimbo i protagonisti del mistero del Natale. “Vennero in fretta – annota il Vangelo – e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino adagiato nella mangiatoia” (Lc 2, 16). Solo tre persone e sicuramente avvolte da un silenzio adorante. In effetti, il silenzio e la solitudine favoriscono la presenza del mistero.

Inoltre, se i pastori si fossero presentati in un’abitazione privata nella città di Betlemme, sarebbero stati accolti, visto che la loro condizione sociale, dovuta alla loro professione impura, li escludeva dalla vita civile? A meno che non si sia tentati di escludere la storicità dell’arrivo dei pastori alla mangiatoia, bisogna anche ricordare che queste persone umili e reiette erano state inserite in una lista di persone non idonee a essere giudici o testimoni, poiché pascolavano le loro greggi su terreni altrui. Oltre a essere considerati impuri, erano anche etichettati come disonesti. Come si spiega, allora, da un lato la loro esclusione sociale e dall’altro la possibilità di essere accolti in un’abitazione privata? Di più, la loro attività di evangelizzazione, raccontando a tutti del bambino e facendo meravigliare le persone che ascoltavano il loro messaggio (cfr. Lc 2,17-18), inizia solo dopo l’incontro con Cristo e in virtù dell’ausilio efficace della sua grazia. Arrivarono, racconta il Vangelo, videro il segno preannunciato dall’Angelo e capirono la parola rivolta loro riguardante il bambino (cfr. Lc 2,17). Vedrebbero e capirebbero se quella stanza fosse stata occupata da estranei all’evento miracoloso? Cosa c’è di veramente speciale, inoltre, se tutte le persone a cui i pastori annunciarono la grande novella si trovavano già nella casa dove erano stati accolti Maria e Giuseppe? C’era bisogno di evangelizzare quella famiglia e gli ospiti, se erano già alla presenza della Sacra Famiglia?

Il punto focale, comunque, è il segno della mangiatoia, attraverso il quale anche l’ambiente circostante, in qualche modo, partecipa all’essere segno dell’unicità di quel Bimbo, il nato Messia. La singolarità di quella nascita doveva essere colta da elementi esteriori straordinari che alludevano a una realtà interiore, pronta e facile da leggere. Vedendo il segno e constatando la veridicità della parola dell’angelo, arrivarono subito alla conclusione: questo bambino è il Cristo Signore. Possiamo ben supporre che i pastori siano stati i primi a essere chiamati per il fatto che, in qualche modo, hanno vissuto la stessa condizione del Messia appena nato, quella degli anawim, a cui appartenevano Maria e Giuseppe. Erano anche le uniche persone sveglie nella notte a vegliare sulle loro greggi. Erano vigili nella notte di quel mondo e pronti, nella loro umiltà, alla venuta di Dio. Con semplicità e fiducia avevano accolto la parola dell’angelo e si erano messi in cammino verso il Salvatore appena nato. Il Vangelo dice così: “E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro” (Lc 2,17). La parola detta loro rimandava al segno e il segno ora rimanda alla parola e li rassicura, li fa credere. Parola e segno si uniscono nella carne assunta dal Logos ed esprimono l’unità sacramentale della realtà invisibile e visibile, nel sacramento per eccellenza: il Verbo incarnato.

Ma c’è un altro dato importante su cui riflettere, quello decisivo. Se la Madonna ha partorito in una normale abitazione, in un via vai di gente e con donne che la assistevano, la conclusione logica è che il parto non è verginale. Un contesto familiare ordinario evoca immediatamente un parto ordinario. Una condizione esterna del parto verginale richiede che esso sia avvolto dal silenzio, dalla privacy e dall’intimità della Madre con il Figlio. Anche la presenza di Giuseppe non è richiesta in quel momento solenne. La verginità in partu della Madre è una nascita miracolosa, straordinaria, del Figlio, di Colui che passa attraverso il grembo della Beata Vergine senza intaccarlo, senza rotture né doglie del parto. Quel momento prelude alla risurrezione di Gesù, quando il suo corpo glorioso passò attraverso il lenzuolo funebre, la sindone, lasciandola stesa lì dov’era, cosa che fu davvero sorprendente per Giovanni e Pietro. Giovanni vide questo segno e credette nella risurrezione (cfr. Gv 20,4-8); e prelude pure all’ingresso di Nostro Signore nel cenacolo, sempre dopo la sua risurrezione, passando attraverso una porta chiusa (cfr. Gv 20,19). Il modo in cui Gesù è venuto al mondo si riflette in questi ultimi momenti solenni della sua vita, intessuti da un’esperienza comune: il silenzio e la riservatezza da occhi profani. Il mistero è sacro, deve essere messo necessariamente al riparo dalla profanità, altrimenti viene facilmente negato. La nascita in un normale ambiente domestico, nonostante una testimonianza antica e costante, trasmette l’idea di un momento “normale” nella vita di Giuseppe e Maria, dove, in realtà, il mistero è oscurato dal rumore e dalla profanità della vita. L’ipotesi di un “soggiorno” quale luogo di nascita di Gesù sembra favorire l’idea di un Natale gioioso, senza isolamento e tristezza vissuti dal Bambino Gesù, immerso piuttosto in un’atmosfera di festa. Eppure tutto ciò sembra rovinare, accanto agli stessi principi della fede, anche il significato stesso della gioia e perciò della festa.

La gioia promana dalla natività di Cristo, dal factum della sua nascita e non dalla situazione esterna di un ambiente accogliente e familiare. È il parto verginale di Maria, privo di dolore, eloquentemente gioioso, ad annunciare una gioia senza pari da trasmettere al mondo. I pastori sono stati i primi a farsi messaggeri di questa gioia perché l’hanno sperimentata loro stessi: una gioia che andava oltre le aspettative umane. Tutti coloro che ascoltavano gli umili pastori parlare del bambino si meravigliavano della buona novella diffusa in ogni dove: era nato il Cristo Signore. E Maria, la Madre di Gesù, colei che era pienamente consapevole del mistero verginale dell’Incarnazione e della nascita dell’Emmanuele, “conservava tutte queste parole, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Maria conserva le parole dei pastori, la loro fede nel mistero dell’incarnazione di Dio quale eco della parola del messaggero celeste. Il suo Cuore Immacolato custodiva le primizie di quella fede: è il luogo santo dove sono custoditi tutti i misteri della fede e la meraviglia dei primi credenti. Infine, un ultimo argomento per rifiutare l’ipotesi di un soggiorno familiare per la nascita di Gesù viene offerto proprio da questo atteggiamento interiore e altamente spirituale di Maria nel meditare quelle parole. Da ciò viene veicolata ancora una volta l’idea di un’atmosfera di raccoglimento, di silenzio e solitudine che avvolgeva la nascita di quel Bimbo. Solo Maria era con il Bambino nel momento mirabile della sua venuta al mondo, e pertanto il Bambino è con Maria. Madre e Figlio, Figlio e Madre, sono una cosa sola e rimangono in quell’unione che è tutta verginale.

Il Bambino con Maria sua Madre

Per convincersi di questa unione verginale tra il Bambino e sua Madre, a cui deve necessariamente fare eco un ambiente esterno adeguato, si può fare riferimento anche al Vangelo di Matteo. Qui, la verginità di Maria, funge da filo d’oro che unisce in modo speciale il Figlio con la Madre. Matteo, al capitolo 2, ripete cinque volte la stessa espressione, e cioè che il Bambino Gesù è con Maria sua Madre. Analizziamo queste espressioni che molto significativamente sembrano ripetere una “formula liturgica”. Il contesto è quello della visita dei Magi e della fuga in Egitto, seguita dal ritorno della Sacra Famiglia a Nazaret.

2,11: Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono.

2,13: Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto».

2:14 Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto,

2:20: Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele;

2:21: Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele.

È chiaro che il Bambino è indissolubilmente unito a Maria sua madre e che questo legame non può che essere la perpetua verginità di Maria. Gesù è l’unico Figlio di Maria, senza un padre, come è l’unico Figlio del Padre dei cieli, senza una madre, vero Dio e vero Uomo. Possiamo riassumere il tutto con il famoso motto di San Luigi Maria Grignion de Montfort: ad Jesum per Mariam. Nel silenzio della verginità di Maria, nella sua riservatezza divina, troviamo la vera culla della santa nascita di Gesù, che necessariamente riflette e modella quella materiale: l’austera grotta della nascita del Divin Pargoletto. O il mistero è un’unità di segno e realtà o semplicemente non è.

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[1] R.E.Brown, The Birth of the Messiah. A Commentary on the infancy narratives in Matthew and Luke (London: Geoffrey Chapman, 1977) Reprinted 1978, 419 (traduzione nostra).

[2] S. Hahn-C. Mitch, Ignatius Catholic Study Bible. The New Testament (San Francisco: Ignatius Press, 2010) 10 (traduzione nostra).

[3] K. Bailey, Jesus Through Middle Eastern Eyes. Cultural Studies in the Gospel (Downers Grove: IVP Academic, 2008) 36 (traduzione nostra).

 

di P. Serafino M. Lanzetta

Una delle preghiere insegnate ai tre pastorelli dall’Angelo a Fatima nel 1916 recita così: “Mio Dio, io credo, adoro, spero e Ti amo! Chiedo perdono per tutti quelli che non credono, non adorano, non sperano e non Ti amano”. Mio Dio, io credo! Senza la fede, inizio della nostra vita soprannaturale, non c’è adorazione né speranza. Che cos’è la fede? Il Catechismo (n. 143) insegna che

«con la fede l’uomo sottomette pienamente a Dio la propria intelligenza e la propria volontà. Con tutto il suo essere l’uomo dà il proprio assenso a Dio rivelatore. La Sacra Scrittura chiama “obbedienza della fede” questa risposta dell’uomo a Dio che rivela». 

Tuttavia è necessario purificare il nostro intelletto e la nostra volontà per poter credere in Dio. Infatti, se la mia anima è governata dai sensi, da sentimenti e giudizi emotivi o da cose che allettano la carne, è difficile credere in Dio. La vera fede richiede la morte dei miei sensi e delle mie inclinazioni carnali. Questo specialmente in tempi di angoscia e di calamità sociale, come l’attuale epidemia, quando è ancora più difficile decifrare la presenza e la volontà di Dio. Sebbene la vera fede non sia mai una cieca rinuncia alla ragione e ad un prudente discernimento, essa dovrebbe essere sempre “nuda”, per usare un’espressione di San Giovanni della Croce, o “pura” come la definisce San Luigi Grignion de Montfort, cioè senza alcun attaccamento umano. La vera fede non è compromessa con il nostro desiderio di trovare sempre un Dio propizio: qualcuno che ci aiuti ogni volta che ne abbiamo bisogno, pronto poi a dimenticarlo una volta che è passato il pericolo. La vera fede è invece la ricerca incessante di Dio, anche quando gli eventi e le avversità contribuiscono a nasconderlo di più o a rendere addirittura irrazionale la sua ricerca. Può sembrare sorprendente, ma la vera fede non è altro che una continua ricerca di Dio attraverso tutto ciò che lo nasconde, lo sfigura, lo distrugge e per così dire lo annienta. Non è forse vero che solo negando ciò che Dio è nel modo comune a tutti gli esseri si arriva a conoscere ciò che Egli è in modo singolare?

Un gesuita francese, padre Jean Paul de Caussade (1675-1751), espone tutti questi requisiti necessari per credere correttamente nella sua opera intitolata Abbandono alla Provvidenza divina. Ecco un testo in cui si spiega questo principio:

«La vita di fede non è altro che una continua ricerca di Dio attraverso tutto ciò che lo nasconde, lo rappresenta male e, per così dire, lo distrugge e lo annienta. È, certamente, la riproduzione della vita di Maria, la quale dalla stalla al Calvario rimane attaccata a un Dio che ogni altro fatica a riconoscere, abbandona e perseguita. Allo stesso modo, uomini di fede passano attraverso e oltre una continua successione di veli, ombre, apparenze e morti, per così dire, in cui ciascuna cosa fa il suo meglio per rendere la volontà di Dio irriconoscibile, ma nonostante ciò, fanno e amano la volontà divina fino alla morte di Croce. Sanno che le ombre devono essere sempre abbandonate per poter seguire questo Sole divino, il quale dal suo sorgere fino al suo tramonto, quantunque nere o pesanti possano essere le nubi che lo coprono, illumina, riscalda e fa brillare con amore i cuori fedeli, i quali lo benedicono, lo lodano e lo contemplano in tutti i punti della sua orbita misteriosa».

Ciò corrisponde a ciò che San Luigi Grignion de Montfort (1673-1716), contemporaneo del p. de Caussade, definisce «fede pura» piena di contraddizioni e di ripugnanza, che il servo di Maria vive ogni giorno, lasciando alla Madre celeste, Sovrana Regina, la chiara visione di Dio. È la Vergine che con la sua fede sostiene quella senza gusti sensibili del suo devoto figlio e che supplisce in tempo di oscurità. Si tratta perciò di partecipare alla fede perfettissima della Vergine Maria. Scrive così il Padre de Montfort:

«Lascia, o povera piccola schiava, lascia alla tua Sovrana la chiara visione di Dio, i trasporti, le gioie, i piaceri, le ricchezze, e prendi per te soltanto la fede pura, piena di svogliatezze, di distrazioni, di noie, di aridità; e dille: “Amen, Così sia, a tutto quello che Tu, mia Padrona, fai in Cielo: per ora è ciò che posso fare di meglio”» (Il Segreto di Maria, n. 51).

Com’è invece la nostra fede? Siamo pronti ad abbracciare la volontà di Dio fino alla morte spirituale di croce, o siamo desiderosi di abbandonare Gesù non appena le cose prendono una brutta piega? Crediamo ancora in Dio, in questo momento difficile, o crediamo piuttosto in noi stessi, nell’onnipotente scienza e tecnologia? Non siamo forse sedotti dal solo potere del vaccino, che è diventato un quasi-dogma, da esaltare come la panacea di tutti i problemi o da rifiutare come la più sottile trama per l’intorpidimento delle coscienze? Proprio riflettendo su questa epidemia-pandemia causata dal Covid-19, possiamo certamente dire che la nostra risposta di fede, come pastori e fedeli, è stata inadeguata, troppo umana, da Ministero della Salute. L’immagine che è così impressa nella mia memoria è il fatto che nella maggior parte delle chiese l’acqua santa è scomparsa, e proprio nell’acquasantiera ora è stato allocato il flacone disinfettante a spruzzo. Non c’è un modo per spruzzare anche l’acqua santa in modo sicuro e resistente al virus come facciamo con il gel sanificante?

I protocolli sanitari hanno la loro indiscutibile precedenza sulla nostra capacità morale di giudicare questa situazione e di essere rispettati in una scelta morale che può accettare il vaccino – la sua liceità morale è stata confermata dalla Congregazione per la Dottrina per la Fede – o rifiutarlo per una questione di coscienza, quando la persona non ne reputi necessaria la somministrazione. Quest’ultima opzione non deve ovviamente essere un pretesto per cadere nel libertarismo, ma una vera scelta etico-morale, soprattutto in relazione al crimine dell’aborto, al reale stato di necessità e all’efficacia del vaccino. Tra coloro che nella nostra Chiesa hanno ricevuto il vaccino e coloro che non l’hanno ricevuto non c’è alcun dialogo. Sembrano essere eterni nemici. Nessuna carità è riservata a questa faccenda, dividendoci più di quanto non abbiano fatto in passato le grandi eresie. Eppure il vaccino non è un dogma né una dottrina. Ciò che è rilevante in un giudizio morale è l’azione morale dell’uomo che sceglie il vaccino.

Dov’è la nostra visione soprannaturale? Dov’è Dio in tutto questo? Dov’è la nostra ricerca della Volontà di Dio sopra ogni altra cosa? Sembra che siamo così avanzati non solo tecnologicamente ma anche moralmente che Dio non ha alcun ruolo in questo momento. Di fatto facciamo tutto come se Lui non esistesse. La nostra fede è molto carnale e interessata.

Mio Dio, io credo, adoro… L’Angelo di Fatima ha insegnato questa preghiera anche in riparazione di questa tragica perdita di fede che si manifesta oggi con un’apostasia che si potrebbe definire liquida, senza contorni e senza confini. Dovremmo cominciare a credere con una fede pura, capace di vedere Dio al di là di questa pandemia, permessa da Lui per purificare la nostra vita. Possiamo dire che questa calamità attuale è soprattutto un castigo della nostra stessa intelligenza, troppo orgogliosa per vedere oltre se stessa e per lasciare spazio all’intervento di Dio? Dopotutto, molti pensano che siccome il virus è stato fabbricato in Cina e il vaccino è stato pianificato in anticipo con il virus, parlare della Provvidenza di Dio in questo contesto sarebbe sminuirne il valore. Ma tutto questo non conduce forse ad una visione deistica di Dio? Un altro modo per dimenticarlo e lasciarlo fuori da un mero gioco umano.

In questa confusione delle nostre menti, come una nuova Torre di Babele nella Chiesa, è necessario tornare a una fede pura e cominciare a credere. Abbiamo bisogno della fede della Madonna. Per la sua fede il Figlio di Dio è stato formato prima nella sua mente e poi nel suo grembo. Per la Sua fede Dio è uomo ed è con noi. Che il Suo Fiat sia pronunciato oggi per noi e in noi. Amen.