Quando Benedetto XVI nel 2007 stabilì che la Messa in rito antico potesse essere celebrata da tutti i sacerdoti senza alcun permesso, giustificò tale decisione dicendo che ciò che era sacro e grande ieri non può essere proibito o giudicato improvvisamente dannoso oggi. Papa Francesco, invece, con il nuovo Motu proprio “Traditionis Custodes” ha detto difatti che la Messa antica è dannosa e da limitare drasticamente nell’uso, fino ad auspicare la sua possibile sparizione. Questa decisione oltre che ad essere conflittuale nel suo interno: ad es., perché essere autorizzati a celebrare secondo un Messale che non è espressione della Lex orandi?, riapre ferite non rimarginate e pone dei problemi fondamentali. Eccone alcuni: — Una rottura del Vaticano II con i concili e il magistero precedente; — Che cos’è la Tradizione apostolica di cui i vescovi sono i custodi? Ora sembrano piuttosto i soldati; — Si acuisce lo scontro tra due Messali (che non sono la stessa cosa): quello del 1962 e quello del 1970 e con ciò la divisione nella Chiesa, ma non si risolve il problema; — Quale il futuro del Cattolicesimo?

Il Signore Gesù ci ha detto di non giudicare per non essere giudicati (Mt 7,1). Cioè non dobbiamo pretendere di sapere di una persona ciò che non appare ma che rimane nascosto. Solo Dio conosce il cuore e perciò può giudicare. Ma da qui dire che non si può giudicare ciò che è manifesto e probabilmente immorale significa semplicemente utilizzare una parola di Gesù per giustificare il peccato. Con la scusa dell’amore e del rispetto della persona si è costretti ad accettare ogni comportamento, anche quando contrario alla legge di Dio. Tipo in materia di omosessualismo, così imperante ai nostri giorni.

Il grande Sant’Alfonso de Liguori nelle sue Visite al SS. Sacramento e a Maria SS. ci ha insegnato a fare la Comunione spirituale, invocando Gesù Eucaristico perché venga nel nostro cuore quando non possiamo riceverlo sacramentalmente. La Comunione spirituale non è stata però mai intesa dal Santo napoletano come un’alternativa al Sacramento, ma piuttosto come un prolungamento spirituale in noi dei suoi effetti e come frutto più prezioso della visita eucaristica. Le condizioni richieste per farla veramente sono le medesime di quelle necessarie per ricevere l’Eucaristia.

Ritorniamo sul tema della salvezza e ora lo affrontiamo dal punto di vista delle parole di Gesù sul calice del Sangue, versato “per molti” (pollon, nell’originale, cf. Mt 26,28). Per ragioni di misericordia e per essere più inclusivi traduciamo e vogliamo tenere il “per tutti”, non accorgendoci però che in tal modo rendiamo la salvezza non solo automatica ma irrilevante; escludiamo chi combatte per salvarsi e includiamo necessariamente chi non si dà pena di rispondere all’appello del Sangue di Cristo. Il “per molti” non esclude nessuno, ma neppure include tutti.

La tradizione della Chiesa non ha avuto mai dubbi circa la sorte eterna di Giuda, definito da Gesù stesso «figlio della perdizione» (Gv 17,12). Gli Atti degli Apostoli, riferendosi al libro della Sapienza (4,19), descrivono la sua morte quale condanna di un empio (At 1,16-20). Eppure ai nostri giorni si tengono panegirici in onore di Giuda, perché in fondo la Chiesa non ha mai stabilito con certezza che qualcuno si sia dannato. Come stanno in verità le cose? Il troppo storpia, senza dubbi.

Molti alla domanda: «Cos’è più grande la giustizia o la misericordia?», risponderebbero che la misericordia è senza dubbio più grande. Ma è proprio così? L’inghippo sta nell’equiparare misericordia e carità. Invece le due cose sono distinte. La carità è Dio stesso, mentre la misericordia è l’amore di Dio donato agli uomini, «l’amore benigno», direbbe Giovanni Paolo II. Per poter essere accolta, la misericordia necessita la carità, quindi la grazia santificante, insieme alla fede e alla speranza. La misericordia così restituisce all’uomo la giustizia e la santità perse con il peccato. Non esisterebbe senza la giustizia o accanto ad essa: è la giustizia che per mezzo della misericordia di Dio ci salva.

Meditiamo sul mistero della Passione di Gesù iscritto per sempre nel segno della Croce. Un segno indistruttibile che interroga ogni uomo, credente o meno, soprattutto quando chiede di essere abbracciata e portata. La si può rifiutare, la si prova a distruggere, ma proprio ciò manifesta il suo carattere permanente e una domanda che non si può eludere: “Dove sei o uomo, dove vorrai essere?”. Tutti dovranno comparire davanti alla Croce, dolce patibolo che redime il male e il peccato, trono da cui regna il Signore. T’adoriamo o Croce Santa. Amen.

San Giuseppe partecipa al mistero di Cristo e alla salvezza che Cristo compie in tutte le sue azioni in modo straordinario. In virtù del suo sposalizio verginale con Maria è introdotto a titolo unico nel mistero di Cristo, diventando padre del Figlio di Dio e “salvatore del Salvatore”. Offrirà tutta la sua vita a Gesù per mezzo di Maria per la restaurazione soprannaturale del genere umano. Ben a ragione può dirsi corredentore unico per Maria e in Maria.

In prossimità della Solennità di San Giuseppe e nell’anno dedicato a questo grande Santo, riflettiamo sulla figura straordinario del Falegname di Nazareth. Scelto dal Padre per una missione unica, diventa anzitutto sposo casto di Maria. Per mezzo di questa unione sponsale e mistica con la Madre di Dio – la sua consacrazione a Lei – San Giuseppe è introdotto in una relazione unica con Gesù: diviene il suo padre verginale, cioè custode della filiazione divina di Gesù con il Padre e ombra del Padre dei cieli sulla terra. Ite ad Ioseph, ricorriamo a questo grande Santo e avremo accesso ai tesori di Dio: Gesù e Maria.

Sant’Agostino definisce l’obbedienza virtù radicale, madre di tutte le virtù, origine e perfezione di ogni giustizia e virtù nella quale si riassume tutta la religione. Il P. Agostino Trapè, grande conoscitore del pensiero dell’Ipponate, riassume così la teologia di Agostino su questo punto: «L’ordine naturale vuole che l’inferiore sia soggetto al superiore; ma perché lo sia, è necessario che questi, il superiore sia soggetto a chi gli è, a sua volta, superiore, affinché sotto Dio, che è al sommo dell’essere, tutto sia ordinato». E se accadesse che il superiore rifiutasse sia l’ordine naturale che quello divino? Ne deriverebbero molti guai, uno molto noto: ricattare i sudditi, costringendoli ad obbedire a ciò che ripudia alla ragione illuminata dalla fede. L’obbedienza non è illimitata. L’autorità nella Chiesa non è autoreferenziale.