Riforme rivelative. I Motu Proprio bergogliani in tema di matrimonio e di famiglia

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di Giovanni TurcoAnno XIII. 1-2018 – sez. Commentaria – p. 155-168

Se all’attività che consiste nel «generare processi» [1]o «occuparsi di iniziare processi» [2]viene attribuito un primato per se stessa, allora tutto ciò che afferisce alla prassi ed imprime cambiamenti, va considerato senz’altro come qualificante e prioritario per quanto riguarda l’impostazione degli atti di chi tale primato afferma. Se poi si pone attenzione al fatto che tale attitudine è posta in alternativa ad una prospettiva indicata con la metafora del«possedere spazi»[3]o «dominare spazi» [4]– che può essere intesa come il determinare e l’ordinare – ne emerge il primato della prassi immanentizzata nei suoi effetti, ovvero il processo come progetto immanentizzato e coincidente, perciò, con il suo stesso farsi.

In tal senso, sul presupposto della maggiore “importanza” della “realtà”sull’ “idea” [5], la prassi risulta dichiarativa della teoria (al modo di una teoria-in-atto), come la situazione risulta preminente rispetto alla valutazione (la quale, su questa premessa, non può che risultare subordinata alla situazione ed a sua volta funzionale ad una diversa situazione) [6]. Così, assunto che occorre «privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi» [7],gli atti e i gesti costituiscono, per se stessi, i “luoghi” ove ricercare primariamente ciò che è essenziale per intendere, in se stessa, la prospettiva donde essi sorgono.

In considerazione di tale impostazione risulta di particolare interesse l’indagine sui testi dei Motu proprio in materia di matrimonio e di famiglia, sia perché si tratta di testi che esprimono atti, i quali rappresentano al contempo gesti (“di propria iniziativa”, appunto), sia in quanto toccano temi caratterizzanti l’attività del pontificato, sia perché riguardano questioni decisive nel dibattito che lo ha riguardato, sia, infine, in quanto si tratta di ambiti di notevole rilievo etico e teologico.

A riguardo appare tutt’altro che trascurabile l’indizio che segnala la numerosità dei Motu proprio bergogliani. Quasi ad indicare la molteplicità di impulsi tesi a “generare processi” ovvero ad imprimere mutamenti. Si registrano, infatti, ben venti Motu proprio in appena cinque anni di pontificato, mentre quello di Benedetto XVI ne annovera in (quasi) otto anni in tutto tredici, e Giovanni Paolo II in oltre ventisei anni ne conta solo venti. Il numero dei Motu proprio risulta in relativo aumento – pur restando in percentuale inferiore a quello attuale – negli atti di Paolo VI (venti in quindici anni) e di Giovanni XXIII (quattordici, in quasi cinque anni); mentre si riduce drasticamente con il pontificato di Pio XII (undici, in diciannove anni di pontificato) e di Pio XI (quattordici in diciassette anni).

1. La riforma del processo per le cause di nullità matrimoniale

La Lettera apostolica in forma di “Motu Proprio” Mitis iudex Dominus Iesus (15 agosto 2015) e l’omologa (in pari data) Mitis et misericors Iesus– con riferimento, rispettivamente, al Codice di Diritto canonico ed al Codice dei Canoni delle Chiese orientali – dispongono la riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio[8].

In premessa del “Motu Proprio” Mitis iudex Dominus Iesus è segnalato che tale «spinta riformatrice»[9]è alimentata dalla considerazione secondo la quale vi sarebbe un «enorme numero di fedeli»[10]i quali «troppo spesso»[11]vengono distolti dal «provvedere alla propria coscienza»[12]dalle «strutture giuridiche della Chiesa»[13], e ciò «a causa della distanza fisica o morale»[14]. Nulla è tuttavia precisato relativamente a tale “enormità” (numerica?,sociologica?, statistica?), né riguardo all’atto del “provvedere alla coscienza”: si tratta di“soddisfare esigenze della coscienza” e quindi trovare “risposte a dubbi” o “regolare questioni morali”, oppure comporta “soddisfare desideri”trovando risposte tali da tranquillizzare la coscienza?Sicché la coscienza (che non necessariamente è retta e certa, ma può essere erronea o rilassata) potrebbe intendersi come testimone di verità o come luogo dell’opinare.

In ogni caso, a quelle che sono definite “strutture giuridiche” (quali?) viene imputata la responsabilità di “distogliere” i fedeli da esigenze che sorgono dalla coscienza, a causa della loro “distanza” (geografica?, psicologica?,gerarchica?, assiologica?)[15]. Talché la Chiesa avrebbe in se medesima, proprio in una imprecisata “distanza” (rispetto a cosa?) della visibilità giuridica (per sé ad essa connaturata) un ostacolo a ché le coscienze possano “provvedere” a ciò di cui ritengono di avere bisogno.

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