L’occidentalismo cristiano di Pëtr Čaadaev

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di Claudio MeliAnno XIV. 1-2019 – sez. Commentaria – p. 197-208

La riflessione sul destino storico della Russia, che sappiamo avere una portata escatologica, ha ricevuto un impulso decisivo da Pëtr Jakovlevič Čaadaev, un pensatore influenzato dalla scuola cattolica tradizionalista; né questo è l’unico motivo di interesse della sua figura e della sua opera.

Una tromba d’allarme

Nel 1836 sulla rivista Teleskop di Mosca, organo dell’intelligencija occidentalista, usciva in traduzione russa (dall’originale francese) e in forma anonima la prima delle otto Lettere filosofiche di Pëtr Jakovlevič Čaadaev (1794-1856), che l’autore era andato componendo dal 1828 al 1830, sotto il regime poliziesco dello zar Nicola I. Lo scalpore che quest’evento suscitò fu addirittura superiore alla gravità delle sue conseguenze: la soppressione del Teleskop, l’esilio del direttore Nadeždin, il pensionamento del censore e l’umiliazione inflitta a Čaadaev, una delle personalità più autorevoli dell’ambiente moscovita, che per aver offeso nel suo scritto il sentimento nazionale fu dichiarato pazzo dietro ordine del governo, sottoposto periodicamente a visita psichiatrica e inibito per sempre dal pubblicare. Aleksandr Herzen nella sua autobiografia ha rievocato tale momento cruciale nella vita intellettuale russa:

«Che cosa possono significare due o tre fogli in una rassegna mensile? Eppure così grande fu la forza di ciò che veniva espresso, così grande fu la potenza del verbo in un paese che taceva e non era avvezzo alla libera parola, che la lettera di Čaadaev scosse tutta la Russia pensante»[1].

E altrove:

«Lo scritto fu accolto da un grido di pena e di stupore. Esso atterriva persino coloro che la pensavano alla stessa maniera; eppure non v’era espresso nulla, all’infuori di quello che muoveva tutti i nostri cuori. Chi di noi non ebbe tali momenti di rabbia in cui si odiava questo paese, che a tutte le alte aspirazioni rispondeva col martirio, e ci destava dal sonno unicamente per metterci alla tortura? Chi non s’augurò di sfuggire da questo carcere che occupa il quarto della terra, da questo impero mostruoso, in cui ogni commissario di polizia è un sovrano, ed ogni sovrano è un commissario di polizia? […]. La lettera di Čaadaev risuonò come una tromba d’allarme»[2].

Questa risonanza trovata in un progressista come Herzen (al netto della divergenza sulle conclusioni) è indicativa dell’estraneità di Čaadaev ai motivi propriamente politici (la sovranità e la legittimità) della filosofia della Restaurazione. È stato scritto del resto che «le sue non sono idee di un reazionario, sono idee di un liberale patriota»[3], e lo stesso Herzen parlava a suo proposito di «cattolicesimo rivoluzionario»[4]. Nessuno come Čaadaev tuttavia ha saputo rendere più eloquentemente l’importanza della tradizione nello sviluppo dei popoli e indicare cosa ne costituisca l’identità; e ciò mentre metteva in discussione quelle della Russia, dalla prospettiva stessa del proprio sradicamento.

​Russia ed Europa

Nel rivolgersi alla sua destinataria, Čaadaev descrive la Russia come un Paese culturalmente sterile, dove non si dà perciò quella trasmissione organica delle idee necessaria ad alimentare la vita civile. Il quadro che egli tratteggia tuttavia ci ricorda piuttosto la situazione della nostra società, immersa ciecamente in un presente assoluto e votata all’estinzione:

«È nella natura dell’uomo perdersi quando non trova modo di legarsi a ciò che lo precede e a ciò che lo segue; allora ogni consistenza, ogni certezza gli sfugge; non essendo guidato dal sentimento della durata permanente, l’uomo si trova smarrito nel mondo. Non si tratta di quella leggerezza che veniva un tempo rimproverata ai Francesi […]; si tratta invece della sventatezza di una vita senza esperienze e senza previsione, che si collega unicamente all’esistenza effimera dell’individuo separato dalla specie; che non tiene né all’onore né al costituirsi di una qualsiasi comunità d’idee ed interessi, e neppure all’eredità di famiglia e all’insieme di prescrizioni e prospettive che compongono, in un ordine di cose fondato sulla memoria del passato e il presentimento del futuro, tanto la vita pubblica quanto quella privata. Nelle nostre teste non c’è assolutamente nulla di generale; tutto è individuale, fluttuante e incompleto»[5].

Čaadaev viceversa individua nell’identità dei popoli europei il frutto di un’autentica educazione storica:

«Lei sa che non è trascorso molto tempo da quando l’Europa si chiamava Cristianità e che questa parola aveva il suo posto nel diritto pubblico. Oltre a questo carattere generale, ognuno dei suoi popoli ha un carattere particolare; ma tutto ciò deriva dalla storia e dalla tradizione, che costituiscono l’ereditario patrimonio ideale di questi popoli. Ogni individuo ne gode l’usufrutto e, senza fatica e senza travaglio, accoglie nella sua vita e mette a profitto queste nozioni presenti nella società. […].

Vuole sapere quali sono queste idee? Sono le idee di dovere, di giustizia, di diritto, di ordine; derivano dagli stessi avvenimenti che hanno costituito la società e sono elementi integranti del mondo sociale di questi Paesi. È questa l’atmosfera dell’Occidente; è più che storia, più che psicologia, è la fisiologia dell’uomo europeo»[6].

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[1]A. Herzen, Passato e pensieri, trad. it., Mondadori, Milano 1970, p. 48.
[2]Idem, Breve storia dei Russi, trad. it., Longanesi, Milano 1970, pp. 150-151.
[3]L. Peano, La Chiesa nel pensiero russo slavofilo, Morcelliana, Brescia 1964, p. 13.
[4]A. Herzen, Passato e pensieri, p. 52.
[5]P. J. Čaadaev, Lettere filosofiche e Apologia d’un pazzo, trad. it., Città Nuova, Roma 1991, p. 74.
[6]Ivi, pp. 72-73.

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