Il ritorno del Nominalismo

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di Padre Serafino LanzettaAnno XIV. 2-2019 – sez. Editoriale – p. 5-18

Viviamo in una Chiesa dominata dal “secondo me”. Il sinodo sull’Amazzonia recentemente tenutosi a Roma dal 6 al 27 ottobre 2019 e più ampiamente la «conversione sinodale» voluta da Francesco sono diventati catalizzatori del soggettivismo dogmatico[1]. Prova di ciò è il documento finale dell’ultimo Sinodo, in cui, dopo aver sottolineato l’importanza di una conversione sinodale per tutta la Chiesa secondo lo stile amazzonico, si arriva però a proporre dottrine nuove contro la dottrina della Fede e il suo sviluppo costante. «Per camminare uniti la Chiesa ha bisogno di una conversione pastorale, sinodalità del popolo di Dio sotto la guida dello Spirito in Amazzonia» (n. 86), recita il documento finale del Sinodo amazzonico, secondo la versione italiana ufficiosa offerta da L’Osservatore Romano[2], ma conforme all’originale spagnolo[3]. La Chiesa intera avrebbe bisogno di una conversione sinodale per camminare uniti sotto la guida dello Spirito in Amazzonia. Qui si sta dicendo, con un lieve gioco di parole, che la Chiesa necessita una conversione amazzonica. Deve avere un volto amazzonico per una ragione molto pratica, cioè per istituire dei ministeri amazzonici, come attestano sistematicamente i tre documenti sinodali: quello preparatorio (cf nn. 12.14), l’Instrumentum laboris (cf nn. 107.116) e quello finale (cf nn. 86.92ss). Una conversione alla quale non si giunge pienamente senza aver prima invocato una «conversione sinodale» come tale, al fine di incoraggiare addirittura una «conversione del papato» secondo la richiesta di Evangelii gaudium (n. 32)[4].

In virtù della conversione amazzonica della Chiesa, frutto della conversione sinodale, si arriva perciò ai ministeri amazzonici, vera ragione pastorale per la quale era stato indetto il Sinodo. Per una sorta di regola commutativa applicata o da applicare in un prossimo futuro a questo Sinodo, i nuovi ministeri amazzonici, cioè l’ora della donna che dovrebbe segnare la svolta della sua Ordinazione diaconale (cf n. 103) e il Sacerdozio a diaconi permanenti anche se con famiglia, senza più quindi l’obbligo del celibato (cf n. 111), diventeranno ministeri ecclesiali. Il volto amazzonico contraddistinguerà così tutta la Chiesa che in quest’ora sembra essere guidata dallo «Spirito in Amazzonia». Qui però accanto all’uso nominalistico che si fa del Sinodo – il Sinodo amazzonico diventa una sorta di concilio ecumenico discettando su dottrine che riguardano il deposito della Fede – ciò che più impensierisce è la chiara volontà di trasformare la Chiesa in una sorta di sinodalità permanente per rivestirsi ora del volto amazzonico, domani forse del volto tedesco (che pur tanto si assomiglia a quello della foresta amazzonica) e poi di ogni altro volto che l’uomo vuole offrirle. Eppure questa trasformazione perennemente sinodale, evidente dallo scambio di ministeri con dottrina di fede ed evento sinodale, chiaramente evidenzia un’operazione di partenza che risente di un forte soggettivismo, il “secondo me”, le cui origini più remote vanno ricercate proprio nel Nominalismo conoscitivo che sbocca inevitabilmente nel Pragmatismo, la cui ultima sponda è il Materialismo.

Tuttavia è bene tener presente che non si sarebbe arrivati a questo punto se non avesse prevalso in antecedenza un evento più grande e più importante rispetto ai contenuti dottrinali insegnati, cioè l’evento “Vaticano II” e il cosiddetto “spirito del Concilio” sugli stessi testi di quel magno Sinodo. Il fatto poi che i testi stessi, data la loro loquace narratività e ambivalenza, si prestino ad accentuare lo spirito rispetto al dato dottrinale, è anche un discorso da tener presente e da verificare nell’attuale contesto del Sinodo amazzonico, in cui l’evento prepara i ministeri e la dottrina si avvolge nell’evento. Questa unità tra evento e parola è saldata da un vocabolario in cui le parole non esprimono più dei concetti specifici, ma sono per lo più, come vorrebbe J. Locke (1632-1704), gruppi arbitrari di idee, occasionati dalla necessità di parlare[5].

Ciò che cozza, però, apertamente contro questa sinodalità elevata a nuovo principio normativo è il fatto che la sua enfatizzazione deriverebbe dalla necessità di ascoltare il sensus fidei, allargando la partecipazione ai fedeli oltre che ai vescovi. Difatti, però, ciò che emerge dagli ultimi Sinodi è la proposta di dottrine che confliggono con il sensus fidei. Ciò è evidente, ad esempio, nel tentativo sinodale sulla famiglia di aprire l’accesso alla Comunione anche ai divorziati risposati, nel tentativo sinodale sui giovani di includere l’opzione LGBT tra le varie possibili scelte dell’individuo (tentativo naufragato in seguito ad una forte opposizione dei media cattolici), infine nel tentativo sinodale amazzonico di riscrivere la natura del sacramento dell’Ordine e dell’annesso celibato.

Di quale sensus fidei si sta parlando? Evidentemente il senso di questo sensus fidei è diverso.

Nominalismo, Empirismo e Pragmatismo

Il Nominalismo è la strada da seguire se si vuole capire quello che sta succedendo nella Chiesa. C’è sicuramente un’opzione nominalista nell’asserto “secondo me” e nel tentativo subdolo di usare le parole del vocabolario teologico per dire un’altra cosa. Dicevamo che la parola “sinodo” ormai si scrive così ma si legge “concilio”. Sensus fidei non è più ciò che la Chiesa crede ubique, semper et ab omnibus, ma ciò che un ristretto gruppo di persone e di potere vuole affermare. Le parole non corrispondono più alla realtà, non la esprimono per ciò che è.

Il Nominalismo, storicamente, è la strada maestra che porta all’Empirismo, abbracciato anche dal Positivismo. Vediamo di cosa si tratta. Secondo la concezione filosofica nominalista, la nozione a cui si era attribuito l’universalità è solo una collezione di percezioni individuali, una sensazione collettiva, secondo D. Hume (1711-1776) – in ciò debitore a Locke –, «un termine associato abitualmente con molte altre idee particolari»[6]. Il concetto astratto non si differenzia essenzialmente dalla sensazione, di cui è solo una trasformazione. Così il Nominalismo di D. Hume, J. Stuart Mill (1806-1873), H. Spencer (1820-1903), A. Huxely (1894-1963) e H. Taine (1828-1893) è compreso nel loro Empirismo e Positivismo[7]. Ad esempio, per il Mill,

«la realtà è sensazione, quindi il concetto è il riassunto del contenuto sensibile, impoverito, mediante l’astrazione, dei suoi elementi specifici. Per dirla in una parola, il concetto è il nome, la generalità è vuota. E, una volta che la realtà è fatta nel senso, il giudizio non è creatore di realtà, ma è il semplice rapporto di concetti, che fonda la credenza nell’oggettività – dove per oggettività non si intende altro che la semplice costanza»[8].

Qui risulta molto interessante evidenziare la posizione dell’empirista scozzese, D. Hume, in relazione all’esistenza di Dio e alla possibilità di una religione naturale. Siccome i concetti non esprimono la realtà ma sono funzioni del pensiero, ciò che essi dicono è vero e valido solo se può essere verificato dall’esperienza. In tal modo Hume, nei suoi Dialoghi sulla religione naturale, mette in discussione il principio di causalità che la Scolastica aveva illuminato quale via privilegiata per arrivare all’esistenza di Dio. A giudizio di Hume, l’ordine, o la compatibilità delle cose con i loro fini (come la compatibilità delle gambe con il camminare) non è per sé prova che ci sia un disegnatore che progetta, eccetto il caso in cui l’esperienza ci mostra un tale ordine. Potremmo mai capire dalla crescita di un capello come un uomo inizia ad esistere?[9] Il personaggio principale dei Dialoghi sulla religione naturale, Filone, che in effetti è lo stesso filosofo che ragiona, darà in queste parole una visione adeguata dell’essenza dell’Empirismo che si muove grazie alle gambe del Nominalismo: «Quel piccolo agitarsi del cervello che chiamiamo “pensiero” – quale speciale privilegio ha per essere capace di servire da modello dell’intero universo? Si staglia ampio per noi poiché siamo sempre alla sua presenza; ma una corretta filosofia deve metterci in guardia attentamente da questo genere di illusione naturale»[10].

Il pensiero, ci dice Hume, è un’illusione e solo l’esperienza prova la verità di una cosa o del rapporto tra causa ed effetto. Epperò, potremmo obiettare a Hume, nel caso in cui un medico non riuscisse a trovare la causa della malattia nel suo paziente, potremmo dire che quel paziente non è ammalato o che lo sarà veramente solo quando il medico avrà esperito la causa della sua malattia? Se poi nel frattempo il malato muore a causa di quella malattia? Questa materializzazione del principio di causalità sarà importante per Hume per poter negare ogni possibilità alla religione naturale, cioè alla ragione di poter conoscere Dio. Non nel senso che Hume voglia così dichiararsi ateo o miscredente. Anzi, nei suoi dialoghi a più riprese fa professione di religiosità. L’Empirista scozzese non sa chi è Dio. Solo sa che Egli è ampiamente oltre la possibilità delle sue facoltà. Per cui sarà Filone a dire a Cleante che il sentimento naturale che una mente ben disposta possa avere in questa situazione è quello di anelare a un intervento divino:

«Dio sarà contento di rimuovere o almeno di diminuire questa profonda ignoranza, col dare al genere umano una particolare rivelazione, rivelando la natura, gli attributi e le operazioni dell’oggetto divino della nostra fede. Una persona che ha una comprensione corretta dell’imperfezione della ragione naturale si precipiterà volentieri verso la verità rivelata, mentre il dogmatico altezzoso (haughty dogmatist), persuaso che può erigere un perfetto sistema teologico con nessun altro aiuto se non quello della filosofia, disdegnerà ogni altro aiuto e rigetterà questo sostegno esterno. Essere scettici dal punto di vista filosofico, in un uomo letterato, è il primo e il gradino più essenziale per diventare un credente cristiano solido»[11].

La posizione scettica di Hume aprirà la strada a I. Kant (1724-1804) che renderà Dio un noumeno, non conoscibile dall’intelletto, ma accessibile solo per via morale. Quindi si arriverà alla negazione di Dio come una semplice proiezione di un’idea dell’uomo. È emblematica a tal riguardo la posizione di F. Nietzsche (1844-1900), secondo il quale il cristiano è bisognoso della redenzione per un’idea di inadeguatezza che subentra dal confrontarsi con un Dio perfetto e con il desiderio di compiere azioni perfette senza egoismo. Questo bisogno di redenzione scompare non appena l’uomo rimuove l’idea di Dio. Infatti, Nietzsche è convinto che «se cade l’idea di Dio, cade anche il sentimento di “peccato” quale trasgressione dei precetti divini, quale difetto di una creatura consacrata a Dio»[12].

Il punto è che Cristo non è un’idea, ma una persona incarnata e la Redenzione è un fatto oltre che un mistero. Le premesse però di una tale conclusione sono nominaliste.

Tuttavia, ritornando a Hume, è molto interessante e attuale la lezione che dà al «dogmatico altezzoso»: se si era pensato di offrire un sistema teologico completo con l’aiuto della filosofia e della metafisica, ora bisogna rinunciarvi perché la ragione è incapace, il pensiero è un’illusione che diventa realtà solo quando tale realtà è sensoriale, esperibile. Con una parola di papa Francesco, che sembra traduca nell’oggi queste istanze, potremmo dire che «la realtà è superiore all’idea»[13] e che tra le due non c’è rispondenza. Di qui una sorta di strana “umiltà” caratterizzerà il pensiero di molti teologi che, consci di ciò, rifiuteranno la metafisica per affidarsi al fideismo, cioè alla giustificazione aletica del dogma a partire dalla stessa fede, senza però più uscire dal labirinto del soggettivismo. Fideismo infatti fa il paio con soggettivismo, come era già accaduto con la Rivoluzione protestante. Quante volte ai nostri giorni sentiamo che la dottrina della Fede non è da considerarsi come pietre da scagliare contro chi non crede o contro chi la pensa diversamente, o che scagliare verità e formule dottrinali come pietre non è cristiano[14]. Ciò presuppone l’umiltà humiana dell’intelletto in una cornice empirista, il cui sottofondo è la visione nominalista del pensiero.

La conseguenza ultima e la riduzione all’assurdo dell’Empirismo è il Pragmatismo, nato in America nel contesto del business e della logica degli affari, ma sviluppatosi anche in contesti meno abbienti. Infatti, «se la realtà è sensazione e se il concetto non è che l’abbreviazione arbitraria dell’esperienza sensibile, il valore del concetto non sarà che quello di una finzione arbitraria, ma comoda. E d’altra parte, se il concetto è il prodotto puramente soggettivo, che non risolve in sé la realtà oggettiva, la sua validità non può essere determinata che dal successo, dalla sua riuscita in quella realtà estranea. Di qui il principio che bisogna far lavorare le idee per accertarsi del loro potere, della loro efficienza pratica»[15].

Il semplice accordo degli individui a livello sociale giudica ciò che giova chiamare verità, ciò che è vero o falso dal punto di vista sociale e utilitaristico. Un forte pragmatismo contrassegna anche i nostri giorni. Si usa molto la parola “pastorale”, si parla di “cura pastorale” o di “progetto pastorale”, ma di fatti si tratta di un pragmatismo che orienta la teoria, o meglio di una prasseologia che è già in sé teoria della prassi. Come possiamo qualificare l’operato del Sinodo amazzonico se non come mera prasseologia? Le esigenze missionarie amazzoniche disegnano nuovi ministeri amazzonici, dicevamo, e per di più come nuova dottrina in contrasto con quella ricevuta da Gesù attraverso gli Apostoli.

L’eterogenesi delle parole

In un quadro dove prevale il Pragmatismo, cioè il pensiero a servizio della prassi, della risoluzione pratica e più conveniente dei problemi e delle sfide che il tempo pone alla Fede, accade spesso che le parole conoscano un mutamento di significato repentino e plurimo. Scegliendo qualche esempio dal vocabolario teologico recente – oltre alla parola “sinodo” e “sensus fidei” a cui abbiamo già accennato – riferiamoci a parole come “misericordia”, “missione”, “pastorale”, quest’ultima tra le più nominaliste del vocabolario di questi ultimi cinquant’anni, che ora è già “conversione pastorale”, ed infine “ecologia”, che però è già “conversione ecologica” e “conversione al territorio”.

La misericordia è il compimento della giustizia secondo la misura superiore dell’amore e del perdono; mai potrebbe essere posta in essere senza che si presupponga la giustizia. Eppure, per buona parte del pontificato di Francesco (grossomodo dall’inizio con l’esaltazione del libro del card. Kasper sul tema fino al Giubileo della Misericordia, chiusosi nel novembre 2016), sembrava che si volesse enfatizzare un perdono di Dio senza far riferimento alla giustizia e alla verità. Ciò fino a postulare la possibilità dell’accesso dei divorziati risposati alla Santa Comunione con Amoris lætitia e fino a riabilitare in qualche modo Lutero con le celebrazioni vaticane per il 500° anniversario della sua Rivoluzione, emblema di una giustizia perdonante senza o addirittura contro la giustizia punitiva di Dio. Se ora diciamo “misericordia” da un pulpito i fedeli capiscono quello che vogliamo dire?

La missione della Chiesa è quella espressa chiaramente dalle parole di Gesù ai suoi Apostoli prima di ascendere al Cielo: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20).

Per papa Francesco missione non deve essere proselitismo. Risulta però complicato non fare proseliti o discepoli nell’evangelizzazione e obbedire allo stesso tempo alle parole del Signore. Missione è invece ora espressa propriamente da una metafora cara al Papa: «Chiesa in uscita». Uscita cioè dagli schemi del passato, da ricette dottrinali già preconfezionate, dalle proprie sicurezze di possedere la verità e di imporla agli altri, ecc. È l’uscita della Chiesa da se stessa per diventare altro da sé, una realtà più dinamica, che si compia finalmente nel processo sinodale.

Allo stesso tempo però, complicando ancora di più il quadro, il Santo Padre ha voluto che ottobre 2019 fosse un mese straordinario della missione, al fine di celebrare i 100 anni dell’Enciclica di Benedetto XV, Maximum illud, che in verità rilanciava la missione della Chiesa non nell’ottica processuale della Chiesa in uscita, ma secondo il consueto imperativo di andare in tutto il mondo, di evangelizzare tutti gli uomini e di convertirli a Cristo e al suo Vangelo. La missionarietà di Francesco rischia di diventare più fortemente introversa perché si smarrisce il fine per il quale bisogna uscire. Cos’è perciò missione oggi?

In questo contesto, accanto a ciò, si segnala un sincero tentativo di rilanciare la missionarietà della Chiesa passando dalla manutenzione alla missione, tentativo però che, per quanto animato da ottime intenzioni, di fatto conduce alle medesime conclusioni di cui sopra[16]. Si parte da una costatazione di fatto: la Chiesa è affetta da una crisi di identità perché sarebbe diventata troppo introversa rinunciando alla missione. Essere discepoli del Signore significa essere missionari, fare altri discepoli. Giusto. Però il punto è l’esatto opposto: la missione è in crisi perché la Chiesa vive una crisi d’identità. L’effetto non può essere frainteso con la causa. Succede però di scambiare l’essere-Chiesa con l’agire-missionario quando si insegna che Chiesa è missione, per il suo essere “apostolica” la Chiesa deve fare altri discepoli. In realtà, essere apostolica significa anzitutto che la Chiesa, Corpo mistico del Signore, è fondata sugli Apostoli per la salvezza di tutte le genti. Questo mistero è da essere portato nell’evangelizzazione a tutti gli uomini perché tutte le genti diventino discepoli del Signore, membra del suo Corpo.

Cambiare perciò l’essere della Chiesa con l’agire, anche se con il buon intento di rilanciare a tutto campo la stessa missionarietà, non è una buona soluzione all’inceppamento della missione. Significa, in fondo, assorbire l’essere, la Chiesa, in un perenne divenire e in ultima analisi significa uscire persino dalla Chiesa, a cui mira «Chiesa in uscita». La missione è paralizzata perché ad esempio la soteriologia è stata umanizzata e la Chiesa è divenuta mero popolo di Dio in cammino che raccatta strada facendo tutti quelli che giacciono lungo i margini. Costoro sono invitati ad entrare, ma potrebbero anche più comodamente starsene fuori, tanto sono già cristiani anche se non lo sanno. Perché fare proseliti (discepoli)?

La parola “pastorale” è una delle più inflazionate. Non avendo in origine, sin dal Vaticano II che ne fece il suo proclama, una chiara identità e una definizione specifica, nel tempo si è evoluta in vari usi. Uno principale è stato quello di segnare una svolta antropologica del Cristianesimo all’insegna della prassi che diventa specchio e verifica della Teologia come tale. Se la Teologia non è più pastorale, nel senso che la pastorale assurge a metro di misura della compatibilità storica di una dottrina con il tempo, allora la Teologia non è più se stessa.

La pastorale, sinonimo anche di missionarietà, non è solo il fine ma diventa, in questo contesto antropocentrico, anche il mezzo. Così si arriva alla “conversione pastorale” che esige l’uscita della Chiesa da se stessa, una Chiesa che si comprende ormai nel suo divenire pastorale, chiamando in causa perciò lo stesso papato e le strutture centrali della Chiesa[17]. Sembra così che la pastorale converta la Chiesa gerarchica in una realtà più leggera, con meno accentramento di potere, e più vicina alle periferie esistenziali.

Infine, con l’Enciclica Laudato sì (24 maggio 2015) si è entrati in una nuova fase del pontificato di papa Francesco. La parola chiave ha smesso di essere “misericordia” – dalla fine del Giubileo ad essa dedicato non si è quasi mai più sentito enunciarla – per passare a una nuova parola d’ordine: “Ecologia”. Qui ecologia è cura della casa comune, della terra o “Madre Terra”. I pontefici precedenti avevano sempre collegato al dovere ecologico di rispetto del creato un’ecologia integrale della persona umana in relazione a Dio. Ora la persona umana è in funzione dell’ecologia che è l’impegno di non-sfruttamento della terra. Terra, poi, diventa anche un particolare territorio geografico illibato e fonte di rivelazione come nel caso della regione amazzonica secondo i dettami dell’Instrumentum laboris che ha fatto da guida ai lavori sinodali. Si perviene pertanto a una conversione ecologica che in detto Instrumentum laboris suggerisce «di recuperare i miti e attualizzare i riti e le celebrazioni comunitarie che contribuiscono in modo significativo al processo di conversione ecologica» (n. 104).

Qui, dunque, ecologia e conversione ecologica vanno completamente oltre il loro significato originario e si aprono a una comprensione dell’ecologia come legame naturale (o panteistico?) dell’uomo con la natura celebrato nel mito e da dover riflettere nelle celebrazioni comunitarie. La maggioranza sinodale ha anche deciso di poter dare vita a un rito amazzonico.

Cos’è allora ecologia?

Ogni parola-chiave di questa neo-lingua teologica riceve tanti significati quanti sono quelli attribuitigli dal soggetto conoscente. Si può capire facilmente che in questo modo si sfocia in un vicolo cieco della comunicazione; non c’è più Teologia che esprima non solo il contenuto della Fede, se fosse ancora importante, ma un contenuto almeno condivisibile. È questa la ragione per cui la comunicazione vaticana sempre più spesso va in tilt?

Eterogenesi dei fini

L’eterogenesi delle parole conduce necessariamente a una sorta di eterogenesi dei fini. Un insegnamento nuovo sviluppato con le medesime parole ormai si presta a raggiungere fini diversi da quelli perseguiti fino a pochi anni or sono dal Magistero della Chiesa. Se le parole non esprimono più la realtà perché di essa esprimono l’essenza, allora diventano facilmente uno strumento di potere, un veicolo della propria volontà di potenza, a volte demagogico, a volte opportunista, il più delle volte rivoluzionario. Le parole diventano solo strumenti per raggiungere un fine che non è la conoscenza della verità ma la propagazione delle proprie idee. Se questo modo di fare diventa maggioritario e finisce con l’affermarsi, la dottrina della Fede, soggetta ai venti di tutte le mode, viene fatta a pezzi. Non si può evitare, in ogni caso, anche nella visione nominalista più intransigente, che una dottrina (un’idea) esprima la realtà: la esprimerà in quanto vi è di conveniente, di utile per l’oggi. Il Nominalismo si compie e si invera nel Pragmatismo.

Una via d’uscita da questo impasse linguistico che non ci consente più di conoscere la Fede per ciò che è e di poter giudicare una Teologia o una visione pastorale per ciò che esse rappresentano ovviamente c’è e non può che essere un sano ritorno al realismo scolastico. Bisogna studiare la metafisica e la logica nei seminari. Gli universali non ci ingannano perché derivano dalla realtà. La esprimono in ciò che essa veramente è e non sono finzioni intellettuali o sensazioni alquanto evolute. I concetti sono derivati dalla realtà e corrispondono pertanto alle cose reali, a ciò che è, sintetizzandolo in un’essenza universale. I dogmi della Fede che professiamo non sono formule vuote, ma esprimono la verità che Cristo ci ha insegnato e che la Chiesa ci ha trasmesso ininterrottamente.

Se diciamo “missione” o “conversione” non possiamo intendere che ciò che Cristo ci ha detto e che la Chiesa ha continuamente insegnato e trasmesso. La parola “missione” (un solo esempio che può ricapitolare il discorso) è derivata dall’insegnamento di Cristo e degli Apostoli e non è un guscio vuoto che ognuno può riempire secondo la stagione in cui si vive. Se cambiamo il suo significato perché non sappiamo cosa essa sia, ma lo apprendiamo dalle scienze umane o dalle religioni degli uomini, cambiamo la realtà, cambiamo il Vangelo.

L’intelletto non ci inganna perché la realtà in fondo non è una finzione e non può essere fittizia. Cristo non è una finzione. È urgente riappropriarsi del vocabolario teologico.

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[1] Una delle menti principali del Sinodo amazzonico, il vescovo austro-brasiliano Erwin Kräutler, nel rispondere in sede di conferenza stampa alla domanda circa la possibilità nella Chiesa dell’Ordinazione sacerdotale delle donne, mettendo da parte ciò che la Chiesa crede, in modo interessante pre-mette il “secondo me” (cf l’intervista concessa a E. Pentin: www.ncregister.com/blog/edward-pentin/key-synod-father-says-pan-amazon-synod-is-maybe-a-step-to-women-catholic-pr).
[2] Lunedì-martedì, 28-29 ottobre 2019, p. 7.
[3] «Para caminar juntos la Iglesia necesita una conversión Sinodal, sinodalidad del Pueblo de Dios bajo la guía del Espíritu en la Amazonía»: www.sinodoamazonico.va/content/sinodoamazonico/es/documentos/documento-final-de-la-asamblea-especial-del-sinodo-de-los-obispo.html.
[4] Questa «conversione sinodale» inizia ufficialmente con il Motu proprio Episcopalis communio, del 15 settembre 2018, in cui il Papa andava a modificare alcune norme regolanti il Sinodo, tra cui quella per cui se il pontefice approva espressamente il documento finale, esso partecipa del Magistero ordinario del successore di Pietro; qualora invece il pontefice avesse conferito potestà deliberativa al Sinodo, il documento finale partecipa del suo Magistero ordinario di successore di Pietro, quando da questi ratificato e promulgato. In quel caso il documento viene promulgato con la firma del Papa insieme a quella degli altri membri. Il documento finale del Sinodo amazzonico appoggia questa visione e fa suo il proclama di una «conversione integrale», tra cui quella sinodale.
[5] Cf P. J. Glenn, The History of Philosophy, B. Herder Book Co., Londra 1948, p. 288.
[6] M. De Wulf, Nominalism, in The Catholic Encyclopedia, Robert Ampleton Company, New York 1911, vol. XI, p. 92.
[7] Cf ivi, p. 93.
[8] G. De Ruggiero, La filosofia contemporanea, Laterza, Bari 1947, vol. II, pp. 18-19.
[9] Cf. D. Hume, Dialogues concerning Natural Religion, Jonathan Bennett 2017, pp. 12-13.
[10] Ivi, p. 13.
[11] Ivi, p. 62.
[12] F. Nietzsche, Umano troppo umano, 1878-1880, vol. 1, parte terza, 133.
[13] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, n. 232.
[14] Cf Francesco, Senza di lui non possiamo far nulla. Essere missionari oggi nel mondo. Una conversazione con Gianni Valente, LEV, Città del Vaticano 2019. Si veda anche Amoris lætitia, n. 49.
[15] G. De Ruggiero, La filosofia contemporanea, pp. 38-39.
[16] In ambito inglese è molto popolare il libro di padre J. Mallon, Divine Renovation. Bringing your parish from maintenance to mission, TwentyThird Publication, New London (CT) 2014. Su questo libro ragiono nel prosieguo della mia critica.
[17] Cf Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, n. 32.

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