Se occorrano fede e carità per compiere un atto morale secondo san Bonaventura

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di Padre Jean-François M. Coudjofio – Anno XVI. 2-2020 – sez. Philosophica – p. 123-171

In questo articolo presentiamo la prima parte di uno studio comparato dei fondamenti della teologia morale di san Bonaventura e di quella del beato Giovanni Duns Scoto in rapporto alla visione francescana e alla dottrina della Chiesa. L’obiettivo è quello di vedere in che modo verità e amore possano essere evocati come criteri di valutazione morale. In questa prima parte esponiamo la concezione bonaventuriana dell’ordine morale, mettendo a fuoco la sua nozione di bene morale, le condizioni della moralità e l’apporto della grazia, santificante e attuale. Lo studio elucida particolarmente la distinzione tra bene naturale e bene morale. Di quest’ultimo l’attenzione è posta sul bene perfetto (secundum se) che è il vero bene morale in quanto eterno, posto in essere per mezzo della fede e della carità.

 In questo articolo vi presentiamo la prima parte di uno studio comparato sui fondamenti della Teologia morale di san Bonaventura e di quella del beato Giovanni Duns Scoto in rapporto alla visione francescana e alla dottrina della Chiesa. L’obiettivo è quello di illustrare in che modo verità e amore possano essere evocate come criteri di valutazione morale. In questa prima parte esponiamo la concezione bonaventuriana dell’ordine morale, mettendo particolarmente a fuoco la sua nozione di bene morale, le condizioni della moralità e l’apporto della grazia, santificante e attuale.

 Sommario:

1. Nozione di bene morale integro

2. Se possano esistere atti indifferenti

3. Il ruolo del riferimento a Dio

4. L’inattitudine dell’intrinsece malum all’influsso perfettivo della carità

5. La volontà divina come fonte di rettitudine

6. L’importanza definitiva della fede e della carità nell’atto morale secondo san Bonaventura

La concezione bonaventuriana dell’ordine morale dipende dalla sua nozione di bene. Il bene, diceva Aristotele, è ciò che tutti desiderano, è il fine dell’agire umano1 . Identica definizione per san Bonaventura2 , con la specificazione che tale bene in ultima analisi è Dio, Creatore e fine ultimo dell’uomo. Dio, sotto questo aspetto, è conoscibile ad ogni uomo per mezzo delle sue impronte nella creazione e per mezzo della sua immagine impressa nell’uomo stesso. Egli attrae quest’ultimo a sé tramite il desiderio naturale di Lui e l’inclinazione verso la felicità in quanto tale. Tutto ciò che è desiderabile ha certamente una ragione di bene, ma ci sono beni autentici e beni falsi, ossia apparenti. Le virtù hanno per oggetto i beni autentici e i vizi i beni apparenti3 . Il Bene vero, l’unico vero e il sommo, è Dio. Ogni altro bene lo è per partecipazione e porta con sé una mistura di felicità e d’infelicità. Pertanto senza l’atto partecipante del Bene per antonomasia, non vi è alcun altro bene. Del resto solo in Lui si realizza l’autentica beatitudine dell’uomo, cosa questa di cui l’uomo stesso si rende conto. Queste verità metafisiche e teologiche – arginate dalla nozione di bene e da quella di partecipazione – sono gravide di conseguenze a livello morale nell’impianto bonaventuriano.

 L’insegnamento morale del Dottore Serafico riconosce, in verità, il bene morale, detto bonum in genere, ma sottolinea che il bene morale vero è quello ordinatum ad assequendam beatitudinem4 , perché nella creatura il bene si riferisce alla sua ordinazione al Sommo Bene. Buono è ciò che è ordinato al fine5 . Stando alla sua dottrina, da un lato non vi è azione buona senza il concorso del libero arbitrio, il quale è naturalmente capace di opere buone; dall’altro, invece, senza una grazia gratis data – ossia transeunte, attuale – l’uomo non può compiere azione alcuna ordinata al fine ultimo. Inoltre, difficilmente senza la medesima egli può compierne una ordinabile – ossia che lo disponga – a detto fine. Quindi senza negare ciò che spetta alla natura il Doctor Seraphicus insiste rettamente sull’ordinamento al soprannaturale6 . Per afferrare tale sua concezione, cerchiamo prima di definire ciò che egli intende per bene morale perfetto.

 1 NOZIONE DI BENE MORALE INTEGRO

Anzitutto san Bonaventura distingue il bene naturale – o metafisico, in quanto convertibile con l’essere – dal bene morale. Il primo si riferisce all’esse, il secondo al bene esse. Quest’ultimo significa essere ordinato, ossia compiuto. Più precisamente, il bene esse si predica dell’uomo il quale nel suo agire conserva l’ordine debito e salvaguarda la propria natura7 . Pertanto il bene morale evoca da un lato un ordine stabilito da seguire e dall’altro una natura data da preservare. Questi due aspetti si richiamano a vicenda. La salvaguardia della natura avviene infatti unitamente al mantenimento dell’ordine debito. Il bene esse indica quindi il raggiungimento dell’integrità e della perfezione dell’esse mediante il giusto orientamento dei propri atti liberi. Esso racchiude il bonum in genere, il bonum ex circumstantia e il bonum perfectum8 . Il bene perfetto, ci fa notare il Serafico nel commento alla distinzione 41 del secondo libro delle Sentenze, è sinonimo di bonum principale o bonum secundum se.

 Tutto ciò viene da lui spiegato in modo diverso e soddisfacente nella distinzione 36, rispondendo al quinto dei dubia circa le parole del Lombardo. Il bene denota di primo acchito l’attualità dell’essere. In tal senso è buono ciò che è in atto. È il primo grado di bontà, detto bontà di natura o bontà naturale, a cui si aggiunge in seguito la bontà morale.

«Respondeo: Dicendum quod Magister dividit hic bonum non quocumque modo, sed bonum, prout est in actu. Bonum autem huiusmodi habet considerari in se sive secundum se; et sic est bonum naturæ. Habet iterum considerari secundum comparationem ad materiam debitam; et sic dicitur bonum in genere. Habet iterum considerari secundum alia tria genera causarum, videlicet in comparatione ad efficiens et formam et finem; et sic est bonum perfectum»9 .

Il bene morale va quindi considerato sia rispetto alla debita materia – o oggetto ragionevole –, sia rispetto alla relazione tra detta materia e le tre cause: efficiente, formale e finale. La causa efficiente è l’agente assolutamente preso, la causa formale la volontà dell’agente che sceglie detta materia, la causa finale, infine, lo scopo mirato. La bontà di un atto morale dipende, dunque, dall’oggetto e dalla triplice relazione dell’oggetto con il soggetto agente, con la volontà di questo e con la intenzione da lui prefissa. L’atto buono dal punto di vista del debito oggetto è detto buono ex genere. Diventa perfettamente buono solo se la relazione con tutte e tre le altre cause è buona; altrimenti rimane buono solo ex genere.

LEGGI TUTTO

1Cf ARISTOTELES, Ethica Nicomachea I, 1, 1094a (AL XXVI 1-3); IDEM, Metaphysica I, 2, 982b, 10 (AL XXV 3.2, p. 16); ivi, XII, 1072a, 35-1072b, 1 (AL XXV3.2, p. 257); IDEM, Retorica, I, 6, 2; I, 7, 2.

2 «Ratio causandi est bonitas, et in ratione effectivi et in ratione finis. Nam “bonum dicitur diffusivum sui”, et bonum est “propter quod omnia”»: sanctus BONAVENTURA DE BALNEOREGIO, I Sent., d. 45, a. 2, q. 1, in DOCTORIS SERAPHICI S. BONAVENTURÆ, Opera omnia, 10 voll., edita studio et cura PP. Colegii a S. Bonaventura, Ex Typographia Colegii S. Bonaventuræ, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1882-1902, vol. I, p. 804b. Citeremo sempre l’edizione Quaracchi dell’Opera omnia e metteremo tra parentesi il volume e la pagina corrispondenti.

3 «Ex his patet sufficientia et numerus vitiorum capitalium. Non enim accipiuntur per oppositionem ad virtutes nec ad dona nec ad beatitudines, sed secundum pronitates respicientes conditiones boni apparentis»: II Sent., d. 42, dub. III (II, p. 978b).

4 II Sent., d. 28, a. 2, q. 3, concl. (II, p. 689b).

5 «Ad prædictorum intelligentiam est notandum, quod bonum in creatura dicitur per ordinationem ad summum. Unde bonum dicitur quod est ordinatum in finem. Ordinatio autem tria respicit: aut ipsum ordinabile, aut illud secundum quod est ordinabile, aut illud per quod ordinatur»: II Sent., d. 34, a. 2, q. 2, concl. (II, p. 813a).

6 In questo è palese l’influsso di sant’Agostino, il Doctor gratiæ, grande oppositore e confutatore del pelagianismo.

7 «Bene esse, quod quidem est esse ordinatum. Unde cum dicuntur homines nihil fieri, cum peccant, hoc non dicitur, quia omni esse priventur, sed quia privantur esse ordinato, quod quidem est esse completum, et de quo dicit Bœthius, quod “esse est, quod ordinem retinet servatque naturam”»: II Sent., d. 34, a. 2, q. 3, concl. (II, p. 815a).

8 «Ad prædictorum intelligentiam est notandum, quod actio deliberativa nata est habere duplicem bonitatem: et bonitatem naturæ, in quantum est actio procedens ab aliqua virtute, et bonitatem moris, in quantum est procedens a libero arbitrio sive a voluntate. Cum ergo quæritur, utrum bonitas et malitia circa actionem habeant repugnatiam, ita quod ipsam dividant tanquam membra opposita; dicendum, quod hoc non est verum de bono, prout dicitur a bonitate essentiali vel naturali […]. Prout autem bonum dicitur a bonitate moris, sic est divisiva differentia actionis, pro eo quod bonum moris in triplici differentia est. Quoddam enim est bonum in genere, quoddam ex circumstantia, quoddam vero bonum perfectum sive principale sive bonum secundum se. Et quælibet harum differentiarum habet differentiam mali sibi ex opposito respondentem»: II Sent., d. 41, a. 1, q. 1, concl. (II, pp. 937b-938a).

9 II Sent., d. 36, dub. V (II, p. 858b).

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