Quei «Misericordiosi alla rovescia»

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di Padre Serafino M. Lanzetta – Anno XVII. 1-2021 – sez. Editoriale – p. 5-16

Siamo diventati così buoni e misericordiosi da assolvere anche Giuda. L’abisso della misericordia si scontra con l’abisso del suo peccato. Se l’abisso invoca l’abisso (cf Sal 42 [41]), allora quel peccato non potrebbe non essere ingoiato e dimenticato in un abisso “più grande”, che desta sicuramente scandalo, ma è lo “scandalo della misericordia divina”. Così fu presentata la misericordia dall’Osservatore Romano, il 1° aprile 2021, Giovedì Santo, raffrontandola con la figura enigmatica di Giuda. In quel giorno il quotidiano vaticano pubblicò due pezzi sull’Iscariota senza far troppo mistero della speranza nella sua salvezza. Uno dei due “testi” era un quadro di un cattolico francese raffigurante un Gesù nudo chino su Giuda tolto dall’albero del suo supplizio, nell’atto di abbracciarlo e di porgergli l’estremo conforto. Il quadro, spiegava l’editoriale di A. Monda, è “frutto delle meditazioni” di papa Francesco raccolte nel suo libro Quando pregate dite Padre Nostro (2018). Qui il Pontefice riprende una sua opinione espressa più volte1, sulla possibile salvezza di Giuda, ispirandosi in particolare, con un’interpretazione tutta personale, al capitello della Chiesa di Vézelay in Francia, che raffigurerebbe Gesù Buon Pastore con Giuda morto sulle sue spalle come una pecorella smarrita da portare in salvo2.

Certamente la Chiesa non ha mai fatto una canonizzazione al contrario, dichiarando che un’anima è all’inferno, nemmeno nel caso di Giuda, definito comunque, in tutti i passaggi biblici a lui relativi, “il traditore”3. Tra il non dire con un pronunciamento ufficiale che Giuda sia all’inferno e il dire che si è (probabilmente) salvato c’è di mezzo un grande mare: il mare del pensiero debole che diluisce la verità nella carità. Chiariamo però un fatto: la Chiesa non si è espressa con un solenne pronunciamento nel caso di Giuda, non perché ci fossero mai stati dubbi circa la sorte del «figlio della perdizione» (Gv 17,12)4, ma solo per essere fedele al potere delle chiavi affidato a Pietro che non riguarda i dannati ma i salvati e la Chiesa (militante, purgante e trionfante). Eppure, lo stesso san Pietro negli Atti degli Apostoli, descrivendo la morte di Giuda quale condanna di un empio (cf At 1,16-20 in relazione a Sap 4,19), non lascia spazio al pensiero della sua salvezza neanche in extremis.

In realtà assolvendo Giuda si condanna di nuovo Gesù e lo si condanna con il medesimo atto di Giuda. O si prova comunque ad assolvere se stessi e a giustificare il proprio peccato. Si assolve il male e si condanna il bene. L’azione di Giuda resta esecranda e dissacrante, accanto però al male più radicale che è il suo rifiuto della misericordia, lasciando spazio alla disperazione. È proprio questo peccato contro lo Spirito Santo, la disperazione, che santa Caterina, erede di una tradizione precedente5, ravvisa nel gesto finale di Giuda. Un peccato più grave del tradimento stesso. Così il Signore rivelò alla Santa:

«Questo è quello peccato che non è perdonato né di qua né di là, perché il peccatore non ha voluto, spregiando la mia misericordia; perciò mi è più grave questo che tutti gli altri peccati che ha commessi. Unde la disperazione di Giuda mi spiacque più e fu più grave al mio Figliolo che non fu il tradimento che egli mi fece. Così sono condannati per questo falso giudizio d’aver posto maggiore il peccato loro che la misericordia mia; e perciò sono puniti con le dimonia e cruciati eternamente con loro»6.

“Maggiore il peccato loro che la misericordia mia”. Non è questo, oltretutto, ciò che accade quando si continua a fare il male, trasformando la giustizia in mero interesse personale, ignari della misericordia che viene usata come tappabuchi della storia? Si condanna Gesù e la fede in Lui con una giustizia iniqua quando la misericordia è completamente avulsa da essa. Infatti il problema delle varie assoluzioni misericordiose dei nostri tempi consiste proprio in una misericordia separata dalla giustizia, che vi si erge contro e prova ad annullarla. Invero, una misericordia che rifiuta la giustizia rifiuta anche se stessa, non ha ragion d’essere e diventa facilmente una caricatura del perdonismo che in fondo non è altro che un giustizialismo mascherato. Non è un caso che il pendolo oscilli spesso tra perdoni scialacquati a basso prezzo ed esecuzioni intransigenti senza il minimo di compassione.

Il problema risiede nella comprensione di ciò che è veramente la misericordia, provando a scambiarla con la carità (o la bontà) perché sia incessante, illimitata e autoreferenziale. Ma soprattutto, in tal modo, si prova a rappresentarla come “attributo essenziale” di Dio e non più come attributo di Dio rispetto a noi (quoad nos); ciò che Dio sarebbe in se stesso e non invece ciò che Egli fa per noi. Con uno stratagemma teologico che ha avuto successo, il card. W. Kasper, erede del pensiero “anti-infernista” di H. Urs von Balthasar, prova così a ribaltare le cose e a dire “misericordia per tutti”, per il fatto che la giustizia di Dio sarebbe comprensibile solo a partire dalla misericordia7. Il dato principale che soggiace a questo impianto è che la misericordia è Dio in se stesso, specchio
della Trinità perché Dio è carità.

Invece misericordia e carità non si identificano, sono due virtù distinte. Bontà e carità vanno insieme e sono intrinseche a Dio, mentre la misericordia è estrinseca. Come la bontà di Dio è unattributo essenziale pari alla giustizia e rinvenibile con la ragione naturale, così la carità è la stessa natura di Dio rivelata nella Sacra Scrittura (cf 1Gv 4,8.16). Sia bontà che carità competono a Dio come tale, invece la misericordia è l’agire di Dio verso di noi. Quest’ultima è sì un attributo di Dio, ma non essenziale (non compete ciò alla sua essenza), dipende dalla bontà e dalla carità di Dio ed è la manifestazione ad extra della bontà e della carità divine. La misericordia, perciò, che è essenzialmente “dare il cuore ai miseri”, non può mai essere stricto sensu amore verso se stessi, ma solo verso coloro che sono nella miseria morale a causa del peccato commesso o nella miseria materiale. Il peccato, provocando per sé una punizione in chi lo commette, genera nel prossimo, in primis in Dio, una compassione. Di qui l’origine della misericordia, che ha quindi come movente il male, commenta l’Aquinate8. Secondo il beato Giovanni Duns Scoto, la misericordia in quanto inclina alla passione non è in Dio. Questo si vede principalmente dal nome, misericors, cioè compatire la miseria altrui (compatiens miseriæ alienæ)9. A giudizio del Dottore Sottile, quindi, la misericordia non è in Dio sommamente giusto, ma è un’esigenza nella creatura10. Di qui anche il fatto che la misericordia dipende dalla giustizia e non viceversa. Ritorno tra breve su questo.

La differenza sostanziale tra carità e misericordia risiede nel fatto che mentre la carità è Dio in se stesso e quindi Dio che si comunica a noi e ci rende capaci di amare nel dono della sua grazia e del suo amore, la misericordia è la carità donata come riconciliazione e perdono: è amore che ci guarisce e ci restituisce la santità persa con il peccato. In modo comune, dice san Bonaventura, la misericordia è detta «benignità nella supererogazione del bene» («benignitas in supererogatione bonorum»)11. Nella carità c’è il dono di Dio a se stesso, nella comunione delle tre Persone divine, la cui sovrabbondanza è stata riversata su di noi nel dono del Figlio e della sua Redenzione. Nella misericordia di Dio invece confluiscono sempre due elementi: compassione (rahamim) e fedeltà (hesed) verso il suo popolo (cf Os 2,21 in relazione a Lc 1,78). Se Dio fosse misericordioso in se stesso dovrebbe avere compassione verso di sé e perdonare sé con se stesso, quindi ci sarebbe in radice un peccato di Dio. Sarebbe blasfemo pensarlo, anche se Lutero lo fa, e anche i suoi emuli, che, con una scorretta esegesi del passaggio paolino: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore» (1Cor 5,21, il Padre addossò al Figlio le conseguenze del peccato), provano a introdurre la realtà del peccato in Dio, rendendo così la misericordia in Lui essenziale e pervasiva.

In verità, la misericordia presuppone da parte di Dio la sua giustizia e la sua carità; da parte dell’uomo il dono della grazia e della carità e queste presuppongono la fede (dopo la prima giustificazione operata dal Battesimo, dono di una giustizia che ci santifica). La misericordia perciò non potrà mai essere automatica. L’amore di Dio non si esaurisce ma è necessaria la risposta dell’uomo, la volontà di essere riconciliati con Lui. Quindi se la misericordia è carità donata, non potrà essere donata ciecamente, senza una sincera contrizione dei peccati da parte dell’uomo. Per giunta, la misericordia non potrà neppure essere un dono che copre i peccati lasciandoci in una condizione oggettiva di disordine, pur dichiarandoci perdonati ma senza esigere una trasformazione della nostra vita.

San Bonaventura nel Commento alle Sentenze si chiede se nelle stesse opere di Dio ci sia misericordia e verità. Risponde dicendo che certamente esse concorrono nelle stesse opere divine; divergono in connotatis, cioè non in ragione della diversità delle opere ma in ragione di una diversa condizione nelle stesse opere. Mentre la misericordia è «abbondanza della divina bontà» («divinæ bonitatis affluentia»), la giustizia è «convenienza della divina bontà» («divinæ bonitatis condecentia»)12. Pertanto, a giudizio del Dottore Serafico, misericordia e giustizia

«sono nelle stesse opere, così come in tutte le opere, poiché (Dio) fa tutto in ragione dell’abbondanza della sua bontà, e nulla fa in ragione dell’abbondanza della sua bontà, se non ciò che si addice alla sua bontà»13.

Chiaramente qui si vede – in un discorso che continua precisando gli altri due modi in cui misericordia e giustizia concorrono – la distinzione tra la bontà di Dio in sé e la bontà di Dio quale abbondanza riversata fuori di sé nella misericordia che opera con giustizia. A giudizio di san Tommaso, la misericordia è più grande solo in chi è più grande e non ha nessuno al di sopra di sé, in Dio. In chi ha altri sopra di sé, la virtù più grande è la carità. Dunque, ancora una volta, misericordia e carità non si identificano. Infatti, commenta l’Aquinate, «con la carità diveniamo simili a Dio, unendoci a lui mediante l’affetto. Essa perciò è superiore alla misericordia, che ci rende simili a Dio solo nell’operare»14. Anche Giovanni Paolo II sottolinea questa distinzione quando dice:

«Nel compimento escatologico la misericordia si rivelerà come amore, mentre nella temporaneità, nella storia umana, che è insieme storia di peccato e di morte, l’amore deve rivelarsi soprattutto come misericordia ed anche attuarsi come tale»15.

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