Protestantesimo e Ateismo Filosofico. Il Caso di Immanuel Kant

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di Stefano Fontana – Anno XVII. 1-2021 – sez. Philosophica – p. 111-132

La modernità si dipana come “ateismo filosofico”, cioè come pensiero incapace di Dio. Alla base della filosofia moderna non vi è il contenuto del pensiero, ma l’atto del pensare, un’auto-postulazione che pretende di far scaturire dall’atto del pensiero la realtà e l’agire. Un principio di immanenza cela la scelta necessaria dell’ateismo. La Riforma protestante, che comporta una filosofia atea, non si identifica con la modernità ma la introduce e la caratterizza. Il protestantesimo è fideisticamente credente ma filosoficamente ateo, ed è l’uno perché è l’altro. L’ateismo filosofico ha una matrice teologico-luterana; non inizia però solo con Hegel per concludersi poi con Nietzsche, ma già con Kant che prova a fondare non la morale su Dio ma Dio sulla morale, ricercando una “fede nella ragione” che esclude il soprannaturale.

1. INTRODUZIONE
La fede cristiana ha delle esigenze epistemiche richieste dal dogma1. La relazione con il realismo metafisico, che esaudisce tali richieste, non ha carattere storico ma essenziale. Per questo motivo è lecito parlare di un “ateismo filosofico”, in riferimento alla svolta del pensiero moderno che ha rovesciato e contraddetto i caratteri della ragione naturale, postulando e costruendo una ragione innaturale, incompatibile col dogma cattolico. Nella modernità, intesa come categoria filosofica e non come epoca storica, «il pensiero si affranca dalla presenza metafisica delle cose, dell’io, di Dio e della legge morale»2. Il momento iniziale di questo processo ha carattere teologico, in quanto espresso embrionalmente ma decisamente dalla Riforma luterana, che esprime delle esigenze epistemiche opposte a quanto visto sopra, ossia esige l’ateismo filosofico. Ciò spiega perché la grande filosofia moderna, soprattutto del XIX secolo, sia teologicamente protestante e filosoficamente atea. A ciò non fa eccezione Immanuel Kant, dato che la critica filosofica (atea) alla religione non è iniziata, come si tende a dire, con Hegel, ma da ben prima. Per questo motivo la teologia cattolica, così colpita dalla influenza della teologia protestante, dovrebbe affrancarsi dall’ateismo filosofico, esplicito o implicito, ben presente anche in autori oggi considerati dei punti di riferimento per se stessa, come accade con Kant.

2. SUL CONCETTO DI ATEISMO FILOSOFICO
Per ateismo filosofico si intende una filosofia che impedisce, per motivi teoretici presenti nel suo “cominciamento” o primo atto, di pensare Dio. Una filosofia essenzialmente incapace di Dio per motivi essenziali e radicalmente epistemici, quindi non più recuperabili né emendabili rimanendo al suo interno. Ci sono fedi religiose che possono convivere con l’ateismo filosofico, ma non può essere questo il caso della religione cattolica. Ciò accade perché nella religione cattolica Dio pone alla ragione delle esigenze epistemiche sia di contenuto che di metodo. Nella storia della filosofia ci sono stati vari sistemi filosoficamente atei, ma tra la filosofia classica e medievale e la filosofia moderna si nota un rilevante scarto. Come sostenuto da padre Cornelio Fabro, mentre l’ateismo filosofico premoderno era marginale e alieno rispetto alla tendenza sostanzialmente (anche se variamente) teistica delle
filosofie dominanti, con la modernità è invece nata una filosofia nuova essenzialmente atea.

Il principale carattere dell’ateismo moderno, ossia il punto che ne determina la differenza rispetto a quello classico, è il suo carattere postulatorio3, per il quale il suo razionalismo diventa una fede e una prassi.

Per Augusto Del Noce il pensiero moderno è a carattere postulatorio, sia in quanto razionalismo sia in quanto ateismo. L’ateismo ha un «aspetto opzionale»4 in quanto «postulazione arbitraria»5 e alla sua base c’è un «atto di fede»6. Cartesio infatti, ritiene che, a conoscere sia una coscienza pura, sicché l’inizio non sta nell’essere ma nell’io. La decisione che la realtà non sia precede il dubbio, che ne è l’espressione, e l’assunzione del nuovo metodo geometrico è sottratta al dubbio stesso come una scelta iniziale certa e immotivata, allo stesso modo che in Rousseau la decisione che Dio non sia precede il dubbio ateo. Il dubbio viene prima del cogito, ma viene dopo l’atto di dubitare. Non è inesatto dire che all’inizio del pensiero cartesiano e moderno c’è il cogito, ma meglio sarebbe dire che all’inizio c’è il dubbio, e meglio ancora che c’è la scelta di iniziare dal proprio atto, o da sé come atto, non dalla coscienza ma dal porre della coscienza. Il carattere postulatorio dell’ateismo, secondo Del Noce, «ha la funzione di mettere in chiaro l’opzione prima che sta a fondamento del razionalismo»7. È molto importante per il nostro discorso segnalare le conseguenze di questa scelta iniziale, ossia quanto del Noce chiama la «normalità della situazione umana»8 come negazione del soprannaturale, e il rifiuto dello status naturæ lapsæ dell’uomo, ossia «della concezione biblica del peccato»9. Il punto di partenza è indipendente e autonomo, a carattere postulatorio e dogmatico e quindi non bisognoso di altro, autosufficiente e sovrano. Il piano naturale si considera così capace di sé ma, nello stesso tempo, finisce per distruggersi anche come piano naturale dato che in fondo è incapace di sé10, essendo che tale capacità di sé è assunta come supposta ma non argomentata, quindi posta ma infondata. Un punto di partenza soggettivamente forte ma oggettivamente debolissimo. A ciò non può che seguire il positivismo filosofico come autonomia della ragione dalla fede, come «filosofia chiusa al soprannaturale»11, vale a dire come filosofia essenzialmente atea.

Cornelio Fabro si concentra sul «primo passo della coscienza, il cosiddetto cominciamento, ch’è decisivo»12:

«quando l’inizio è fatto col cogito, con l’atto del pensiero che ha rimosso da sé ogni contenuto di essere, la filosofia ha negato di per sé la sua fondazione nell’essere ed ha posto l’essere alle dipendenze del pensiero, mediato dall’atto del pensiero, comunque poi l’atto della mediazione venga concepito dai vari sistemi della filosofia moderna»13.

All’inizio della modernità non sta il contenuto del pensiero, ma l’atto del pensare e, quindi, la modernità è auto postulatoria in quanto pretende di far scaturire dall’atto del pensiero la realtà e l’agire. Per questo Fabro parla del plesso cogito-volo14: il cogito è in realtà un volo e «la pretesa auto-fondazione della ragione nell’attività di sé medesima si rovescia nella negazione di ogni fondazione»15 e nel principio di immanenza della modernità si cela la scelta necessaria per l’ateismo16. Per lui l’ateismo è «la conseguenza diretta di un inizio del filosofare ch’è assolutamente determinante per l’espulsione di Dio»17. Fabro ritiene che «chi parte dal pensiero come fondamento dell’essere si preclude a priori ogni autentica posizione di trascendenza»18. Lo sviluppo cogente del pensiero, una volta fatto il primo passo nel principio di immanenza della modernità, procede per intima coerenza, indifferente alla buona fede dei filosofi cristiani: «La buona fede atea, se c’è stata o se ci può essere all’inizio come effetto di ambiente e di educazione, non può e non deve rimanere molto a lungo e per tutta la vita»19.

I giudizi di Del Noce e Fabro sull’ateismo filosofico della modernità coincidono tra loro in molti punti, ma non in tutti. C’è una differenza di radicalità, vale a dire di penetrazione teoretica del momento iniziale. Fabro pensa che il cogito cartesiano contenga necessariamente l’ateismo non tanto come contenuto quanto come atto del pensare liberamente posto prima di ogni contenuto, anzi come contenuto esso stesso, mentre Del Noce pensa ad un nesso solo “problematico” con l’ateismo, ritenendo egli possibile una diversa modernità che da Cartesio si sarebbe pure potuta sviluppare20.

Anche Étienne Gilson si concentra sul momento iniziale del pensiero moderno, considerandolo la prima forma di idealismo che si contrappone in modo irrecuperabile al realismo: «O, come realisti, si partirà dall’essere, e si avrà anche la conoscenza, o, come idealisti critici, si partirà dalla conoscenza, e non si raggiungerà mai l’essere»21. Anche per lui l’assunzione di una filosofia critica, come è non solo quella di Kant ma anche quella di Cartesio, è un «problema arbitrario»22. Condanna alla radice la possibilità di un “realismo critico”, secondo il quale il realismo assumerebbe la conoscenza dell’essere come un “postulato”23 e rovescia l’accusa: il vero atteggiamento dogmatico è quello del pensiero moderno che consiste nel non accettare, senza alcuna motivazione, l’evidenza dell’essere24. Anche in Gilson c’è l’avvertenza del dogmatismo della modernità e della pretesa della ragione di fare da sola, ritenendo essa che «un “al di là” del pensiero non è pensabile»25. Tale dogmatismo, secondo lui, segue una strada particolare, ossia pone il problema che dovrebbe confutare il realismo e motivare il razionalismo come sua soluzione, ma quando il problema viene posto la soluzione è già presente, anzi lo precedeva. Il cosiddetto problema del “ponte” tra le idee e le cose presuppone già l’impostazione razionalista26. Anticipare il metodo al contenuto e pensare che la filosofia della conoscenza debba precedere l’ontologia come sua condizione è già frutto di una scelta immotivata27.

Il dogmatismo del razionalismo è la forma acuta del naturalismo e comporta la negazione del primato della fede nel rapporto fede-ragione. Il naturalismo ha la pretesa di «giungere con mezzi filosofici a poter sostenere che l’uomo aspira a un fine soprannaturale […] giungere ad una conclusione teologica attraverso la filosofia»28. Secondo Gilson, questo è contraddittorio perché non si può «giustificare una teologia affidandosi alle sole risorse della filosofia»29. Quando lo si fa, e la filosofia moderna lo fa, la teologia viene ridotta a filosofia, la fede a ragione, Dio a mondo. Si tratta nuovamente del “principio di immanenza”, ossia dell’ateismo.

Si può dire che a ciò Gilson abbia dedicato tutta la sua opera di storico della filosofia. La filosofia riesce ad essere se stessa se non si stacca dalla fede, quindi deve riconoscere alla fede la capacità di produrre filosofia, anzi di produrre vera filosofia, una filosofia la cui verità deriva proprio dalla dipendenza dalla fede. Se sul piano storico questo non si fosse mai verificato, si potrebbe pensarlo come impossibile, ma allora tutto il sistema del rapporto fede e ragione crollerebbe. Gilson ci ricorda che «alla formulazione della sua dottrina, Tommaso non è pervenuto meditando su Aristotele, ma sulla Sacra Scrittura»30. La filosofia cristiana nasce dalla teologia e non viceversa. «La teologia cristiana è un’interpretazione della fede cristiana nella verità della Parola di Dio, verità immutabile»31,

«ed è stato proprio chiedendosi che cosa sapesse di quello in cui credeva, che San Tommaso ha potuto creare quel corpus di verità razionalmente dimostrate che oggi chiamiamo la filosofia di San Tommaso»32.

La preoccupazione di Gilson è che quella di san Tommaso non sia fatta passare «per una filosofia della natura avulsa da quella fede religiosa che per San Tommaso rappresentava il fondo, il succo e l’essenza di tutti i suoi studi»33.

Si può pensare che Gilson abbia dedicato meno spazio all’ateismo filosofico rispetto a Del Noce e Fabro. Sarebbe però un errore ritenere che per lui il nuovo impianto della filosofia moderna non contenesse essenzialmente l’esito ateistico. Il libretto dal curioso titolo de L’ateismo difficile34, scritto con elegante sarcasmo, è finalizzato a mostrare l’impossibilità argomentativa dell’ateismo in modo che la scelta per esso è sempre dovuta ad altri motivi ma non a quelli filosofici. La conoscenza di Dio richiede la nozione di essere – «non appena si perde di vista la nozione di essere, quella di Dio perde ogni intelligibilità»35 – e siccome la filosofia moderna ha perso la nozione di essere, si è preclusa strutturalmente l’accesso a Dio. La conclusione atea in dipendenza necessaria dal momento iniziale della modernità c’è quindi anche in Gilson.

Augusto Del Noce riteneva che scopo di tutta l’attività storio grafica di Gilson fosse di trovare la prova storica della capacità essenziale e non puramente accidentale della fede cristiana di produrre una filosofia e che tale produzione potesse essere garanzia unica ed assoluta che si trattasse di una filosofia vera. Si trattava di trovare la prova storica del fatto che «le risorse della ragione vengono sempre dopo la fede»36. Del Noce ritiene che Gilson abbia dimostrato che

«la filosofia greca è uscita dal medioevo diversa da come vi era entrata e dipende dalla filosofia cristiana il fatto che la filosofia abbia subito una trasformazione così profonda. La teologia, dunque, non ha semplicemente contenuto la metafisica, essa ha necessariamente dovuto produrne»37.

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