La vita spirituale durante una pandemia

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di Padre Serafino M. Lanzetta – Anno XVI. 2-2021 – sez. Commentaria – p. 201-214

La vita spirituale del cristiano è la vita nello Spirito, cioè far sì che per mezzo della grazia santificante, lo Spirito Santo ci radichi in Cristo e ci trasformi in Lui. Questa vita divina in noi è ancor più necessaria in un tempo di pandemia o in generale di calamità, quando le certezze tecnico-scientifiche si affievoliscono e l’unica vera luce risulta quella della fede che vede oltre. È necessario però nutrire questa vita nello Spirito con la fede, la speranza e la preghiera, così che tutte e tre alimentino la carità. Purtroppo allo smarrimento sociale e alle nuove paure insorte a causa del coronavirus non è seguita una risposta davvero cristiana, né tantomeno i pastori hanno saputo indirizzare i fedeli con sapienza soprannaturale, intenti invece a lasciarsi dettare le regole dell’agire dalle istituzioni secolari. La speranza si è mondanizzata, o osannando il vaccino quale unico rimedio necessario o ritenendolo la più grande congiura per l’assopimento delle coscienze. Il problema risulta solo di ordine sanitario: morale in quanto funzionale al sanitario e non viceversa (come dovrebbe essere), mentre Dio che guida la storia e gli eventi sembra assente, lasciandosi sfuggire un’occasione propizia per evangelizzare il mondo.

Divido questo mio intervento1 in due momenti: rifletto dapprima sull’importanza di nutrire la vita spirituale in una situazione di calamità, quando cioè è più difficile decifrare la presenza di Dio e pertanto si richiede una fede e una speranza più solide, e poi proverò ad offrire una lettura della presente situazione epidemico-pandemica causata dal Covid-19, evidenziando le cause di una sì carente risposta teologico-spirituale al fenomeno.

1. LA VITA SPIRITUALE DEL CRISTIANO

Iniziamo quest’analisi col definire cos’è “vita spirituale”. Si tratta della vita nello Spirito Santo, il quale, in virtù della sua presenza in noi mediante la grazia santificante, produce l’inabitazione della Santissima Trinità nell’anima. Tale vita infusa in noi dallo Spirito di Dio, dalla sua eterna Carità, è di ordine soprannaturale ed è una partecipazione della vita stessa di Dio all’uomo. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo vivono così nell’anima. La vita dell’Unitrino: la generazione del Figlio e la spirazione dell’amore che è lo Spirito Santo, si riversa nell’anima dell’uomo, cosicché diventi figlio nel Figlio e ami il Padre con lo stesso amore del Padre e del Figlio: lo Spirito Santo. Tale vita divina in noi, che per mezzo della grazia fa sì che Dio si doni a noi come padre, amico, santificatore e collaboratore, si sviluppa crescendo nell’obbedienza a Cristo e lasciando che Lui cresca in noi, con la sua «sapienza, età e grazia» (Lc 2,52). La vita spirituale è perciò vivere Cristo, amare Cristo e conformarsi a Lui. In breve: essere Cristo; un altro Cristo, ma lo stesso Cristo.

Possiamo anche definire questa vita nello Spirito come «partecipazione della vita di Dio per i meriti di Gesù Cristo», oppure come «la vita di Dio in noi o la vita di Gesù in noi»2.

Con il padre Adolphe Tanquerey, dobbiamo precisare che

«queste espressioni sono giuste, se si bada a spiegarle bene in modo da evitare ogni cenno di panteismo. Noi infatti non abbiamo una vita identica a quella di Dio o di Nostro Signore, ma una somiglianza di questa vita, una partecipazione finita, benché reale, di questa vita. Possiamo dunque definirla: una partecipazione della vita divina, conferita dallo Spirito Santo che abita in noi, in virtù dei meriti di Gesù Cristo, e che noi dobbiamo coltivare contro le tendenze che le si oppongono»3.

Vita spirituale, allora, è l’elevarsi dell’uomo rispetto alla vita materiale, alimentata dai sensi esterni ed interni, trascendendo tutto per fissarsi nell’unico Tutto, Dio, in virtù dell’anima – dell’intelletto e della volontà – resa capace di ciò dalla grazia santificante, qualità soprannaturale che eleva e perfeziona. La vita spirituale è quindi la vita dell’anima in grazia che partecipa dello Spirito di Dio, della vita di Dio che è amore in noi. Grazia e carità infatti vanno sempre insieme, al punto che c’è l’una se c’è l’altra. Vediamo ora in che modo la grazia interagisce con le virtù teologali, in particolare con la fede.

2. FEDE E PREGHIERA PER NUTRIRE LA VITA DI GRAZIA

Non si può essere veramente cristiani solo per aver ricevuto il Battesimo e con esso la grazia santificante, senza curarsi di nutrire questa vita soprannaturale seminata in noi. Come il seme gettato nella terra non dà frutto se non ci si prende cura di esso, così la vita divina nell’uomo. Siamo infatti tralci innestati nella vite: non portiamo frutto se non rimaniamo uniti alla vite, a Gesù (cf Gv 15,1-8). La grazia ci dona la fede – «gratia facit fidem»4 – e con essa il dono della speranza e della carità. Le tre virtù teologali con tutte le altre virtù morali, promananti dalle quattro virtù cardinali, sono infuse in noi dalla grazia. La vita del cristiano è perciò un organismo soprannaturale alimentato dalla vita divina della grazia. Il peccato mortale uccide la carità e spegne la grazia, mentre la fede, anche se imperfetta e informe, rimane come sprone e capacità dell’uomo di ritornare a Dio. La fede, senza la quale non si può piacere a Dio (cf Eb 11,6), segna perciò l’inizio della vita nello Spirito e va nutrita costantemente con la preghiera perché non venga meno. È la fede che tiene desta in noi la presenza di Dio. Essa ci fa accorgere di Dio in noi. Viviamo di Lui in virtù della grazia infusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo, ma viviamo per Lui nella misura in cui rispondiamo al dono della grazia per mezzo dell’esercizio della fede.

2.1. La fede: ricercare Dio attraverso ciò che lo nasconde

La presenza di Dio che santifica la nostra anima, come dicevamo, produce l’inabitazione della Santissima Trinità. Questa è stabilita nella profondità del nostro cuore sottomesso alla volontà divina. La fede ci fa sottomettere alla volontà di Dio, purifica il cuore dalla materialità della conoscenza sensibile e dalle inclinazioni solo carnali che ci portano a non accorgerci di Dio o ci abituano a una vita senza Dio, senza il bisogno della fede. Con il padre gesuita e grande direttore di spirito, Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), possiamo dire che solo nella misura in cui diamo la morte ai nostri sensi e ci spogliamo di essi facciamo vivere la fede; la distruzione dei sensi significa il regno della fede. Un regno che è duro da accettare, che richiede un agere contra; ma solo nella misura in cui c’è lo sforzo si vive per Dio distaccandosi da ciò che invece è allettante perché conforme al nostro pensiero. Un principio enunciato dal padre de Caussade nel suo capolavoro L’abbandono alla Provvidenza divina è questo: la vita di fede non è altro che una continua ricerca di Dio attraverso tutto ciò che lo nasconde, lo sfigura, lo distrugge e per così dire lo annienta. Sorprende questo enunciato, eppure solo negando ciò che Dio è in modo comune a tutti gli esseri, possiamo arrivare a sapere ciò che Egli è in modo singolare. Ecco un testo in cui questo principio viene sviluppato:

«L’anima illuminata dalla grazia è molto lontana dal giudicare le cose come fanno coloro che le misurano con i loro sensi, essendo ignoranti del tesoro inestimabile che esse nascondono. Colui che sa che una certa persona travestita è il Re, lo accoglie in un modo molto diverso da chi vedendo l’aspetto esteriore di un uomo ordinario lo tratta secondo ciò che appare. […] La vita di fede non è altro che una continua ricerca di Dio attraverso tutto ciò che lo nasconde, lo rappresenta male e, per così dire, lo distrugge e lo annienta. È, certamente, la riproduzione della vita di Maria, la quale dalla stalla al Calvario rimane attaccata a un Dio che ogni altro fatica a riconoscere, abbandona e perseguita. Allo stesso modo, uomini di fede passano attraverso e oltre una continua successione di veli, ombre, apparenze e morti, per così dire, in cui ciascuna cosa fa il suo meglio per rendere la volontà di Dio irriconoscibile, ma nonostante ciò, fanno e amano la volontà divina fino alla morte di Croce. Sanno che le ombre devono essere sempre abbandonate per poter seguire questo Sole divino, il quale dal suo sorgere fino al suo tramonto, quantunque nere o pesanti possano essere le nubi che lo coprono, illumina, riscalda e fa brillare con amore i cuori fedeli, i quali lo benedicono, lo lodano e lo contemplano in tutti i punti della sua orbita misteriosa»5.

Ciò corrisponde a ciò che san Luigi Grignion da Montfort (1673-1716), contemporaneo del padre de Caussade, definisce “fede pura” piena di contraddizioni e di ripugnanza, che il servo di Maria vive ogni giorno, lasciando alla Madre celeste, Sovrana Regina, la chiara visione di Dio. È la Vergine che con la sua fede sostiene quella senza gusti sensibili del suo devoto figlio e che supplisce in tempo di oscurità. Si tratta perciò di partecipare alla fede di Maria6. Scrive così il Montfort:

«Lascia, o povera piccola schiava, lascia alla tua Sovrana la chiara visione di Dio, i trasporti, le gioie, i piaceri, le ricchezze, e prendi per te soltanto la fede pura, piena di svogliatezze, di distrazioni, di noie, di aridità; e dille: “Amen, Così sia, a tutto quello che Tu, mia Padrona, fai in Cielo: per ora è ciò che posso fare di meglio”»7.

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