La valutazione dell’atto morale e le deviazioni contemporanee

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di Padre Serafino M. Lanzetta – Anno XVI. 2-2020 – sez. Theologica – p. 263-281

Dopo una presentazione dell’atto morale, dipendente da tre elementi: dall’oggetto scelto, dal fine che ci si prefigge o dall’intenzione e dalle circostanze dell’azione (ivi comprese le conseguenze), lo studio passa ad enucleare tre problemi teologici contemporanei in riferimento a un’interpretazione morale che privilegia la precedenza delle intenzioni sul bene morale. Primo, una fondazione morale esclusivamente biblica che si volle a partire dai primi anni post-conciliari, prendendo spunto dalla Dei Verbum del Vaticano II; secondo, due teorie teleologiche denunciate da Veritatis splendor, il «consequenzialismo» e il «proporzionalismo», a cui va aggiunta la cosiddetta «opzione fondamentale» o «libertà fondamentale»; terzo, il tentativo dei nostri giorni di leggere Amoris lætitia alla luce di Gaudium et spes ma dimenticando Humanæ vitæ.

In questo intervento1 , dopo una presentazione dell’atto morale come tale e quindi di ciò che lo definisce, ci soffermeremo su alcune deviazioni teologico-morali presenti. Queste puntano per lo più a un morale intimistica basata fondamentalmente sulle intenzioni dell’agente, intenzioni che riescono addirittura ad assorbire in sé l’oggetto morale e la scelta medesima in vista del fine da conseguire. Prenderemo in esame tre problematiche che hanno una forte incidenza nella Chiesa di oggi.

Anzitutto solleveremo il problema di una fondazione morale esclusivamente biblica che si volle a partire dai primi anni post-conciliari, prendendo spunto dalla Dei Verbum del Vaticano II, provando difatti ad escludere la legge morale naturale rifiutando una fondazione giusnaturalistica della stessa morale. Poi ci concentreremo su due teorie teleologiche denunciate da Veritatis splendor, il «consequenzialismo» e il «proporzionalismo». Ad esse si aggiunge la cosiddetta «opzione fondamentale» o «libertà fondamentale» che si inserisce nel quadro di un’etica teleologica e può spesso derivare da un approccio di tipo consequenzialista o proporzionalista, entrambi tuttavia riducenti la moralità all’intenzione del soggetto che sceglie. Infine, ci soffermeremo su un tentativo attuale di leggere Amoris lætitia alla luce di Gaudium et spes ma bypassando Humanæ vitæ. Questo darebbe adito alla nascita di un “cambio di paradigma” instaurato dalla recente esortazione post-sinodale di papa Francesco sull’amore nella famiglia, ma che in realtà è una nuova declinazione del medesimo approccio etico teleologico di “morale della situazione”, in cui, alla fin dei conti, la bontà della scelta morale è da giudicarsi meramente in ragione delle intenzioni del soggetto agente o delle circostanze in cui ci si trova ad agire. Una buona intenzione o inevitabili circostanze di vita, in un calcolo attento dei possibili effetti nocivi, bilanciati o ampiamente superati da quelli buoni, renderebbe l’azione almeno accettabile se non addirittura buona e santa.

Un riferimento magisteriale importante che ci farà da guida in questa esposizione è la Lettera Enciclica di san Giovanni Paolo II Veritatis splendor, promulgata il 6 agosto 1993, che ha conservato ancora oggi il suo spessore dottrinale e il suo valore profetico.

1 L’ATTO MORALE

Soffermiamoci anzitutto sugli atti umani che, proprio perché tali, sono orientati – o dovrebbero esserlo – al bene scelto liberamente. Qualora non lo fossero, perderebbero la loro bontà e si qualificherebbero come atti cattivi, un peccato, e quale contravvenzione alla legge. Quindi, un atto è morale, cioè è un atto di scelta veramente umano, quando è un atto libero in relazione alla legge di Dio riflessa nella legge morale naturale e iscritta nel cuore di ogni uomo. Tale rapporto tra libertà e legge ha la sua sede intima e viva nella coscienza dell’uomo. Un atto morale proprio in quanto libero implica la responsabilità dell’agente. Perciò, solo gli atti umani liberi sono atti morali perché implicano la responsabilità dell’uomo verso se stesso, gli altri e Dio. A tal proposito la Veritatis splendor insegna:

«La moralità degli atti è definita dal rapporto della libertà dell’uomo col bene autentico. Tale bene è stabilito, come legge eterna, dalla Sapienza di Dio che ordina ogni essere al suo fine: questa legge eterna è conosciuta tanto attraverso la ragione naturale dell’uomo (e così è “legge naturale”), quanto – in modo integrale e perfetto – attraverso la rivelazione soprannaturale di Dio (e così è chiamata “legge divina”). L’agire è moralmente buono quando le scelte della libertà sono conformi al vero bene dell’uomo ed esprimono così l’ordinazione volontaria della persona verso il suo fine ultimo, cioè Dio stesso: il bene supremo nel quale l’uomo trova la sua piena e perfetta felicità»2 .

L’agire umano, quindi, deve essere sempre orientato al be – ne, al vero bene e in definitiva al Bene sommo che è Dio, il quale è la ragione stessa del bene. L’atto umano non può essere valutato come moralmente buono solo perché permette di raggiungere questo o quello scopo, o semplicemente perché l’intenzione del soggetto è buona. L’agire è moralmente buono quando esprime l’ordinazione della volontà e quindi della persona al fine ultimo, a Dio, e quando l’azione concreta è conforme al bene umano riconosciuto nella sua verità dalla ra – gione. È la verità che costituisce il bene come tale, che cioè fa sì che un bene sia veramente tale e non invece solo apparente, cioè un male. Tale verità è espressione e partecipazione di quel determinato bene alla verità di Dio, alla sua legge divina iscritta nel cuore della persona. In ogni azione morale, pertanto, l’uomo è posto al cospetto di Dio e sceglie moralmente quando è ordinato a Dio. Perciò, con la Veritatis splendor, possiamo dire che

«in questo senso la vita morale possiede un essenziale carattereteleologico”, perché consiste nella deliberata ordinazione degli atti umani a Dio, sommo bene e fine (telos) ultimo dell’uomo. Lo attesta, ancora una volta, la domanda del giovane a Gesù: “Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?”. Ma questa ordinazione al fine ultimo non è una dimensione soggettivistica che dipende solo dall’intenzione. Essa presuppone che tali atti siano in se stessi ordinabili a questo fine, in quanto conformi all’autentico bene morale dell’uomo, tutelato dai comandamenti. È ciò che ricorda Gesù stesso nella risposta al giovane: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti” (Mt 19,17)»3 .

La moralità degli atti umani dipende da tre elementi4:

a) dall’oggetto scelto;

b) dal fine che ci si prefigge o dall’intenzione;

c) dalle circostanze dell’azione (ivi comprese le conseguenze).

L’oggetto, l’intenzione e le circostanze costituiscono le “fonti”, o elementi costitutivi, della moralità degli atti umani. L’oggetto scelto è un bene verso il quale la volontà si dirige deliberatamente5 . Esso fornisce la materia di un atto umano. Di più, l’oggetto scelto specifica moralmente l’atto del volere, in quanto la ragione lo riconosce e lo giudica conforme o no al vero bene. L’atto di scelta dipende dall’oggetto, dalla cosa in sé, buona o meno se è ordinabile o meno a Colui che è il Bene, Dio. Come insegna la Veritatis splendor, l’atto umano dipende dal suo oggetto, ossia se questo è ordinabile o meno a Dio, a Colui che “solo è buono”, e così realizza la perfezione della persona6 . L’atto è buono, quindi, se il suo oggetto è conforme al bene della persona e se questo bene in ultima analisi coincide con il Bene sommo, nel rispetto di tutti gli altri beni moralmente rilevanti.

LEGGI TUTTO

1 Conferenza tenuta all’Università d’Estate 2020, organizzata dalla Fondazione Lepanto.

2 GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, n. 72 (abbrevieremo VS).

3 VS 73.

4 Cf CCC 1750.

5 CCC 1751.

6 VS, n. 78.

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