La Russia negli scritti di Joseph de Maistre e della sua posterità intellettuale russa

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di Claudio Meli, – Anno XVII. 2-2022 – sez. Commentaria – p. 143-164

CAPITOLO I

Joseph de Maistre trascorse quattordici anni a San Pietroburgo come ministro plenipotenziario del re di Sardegna, dal 1803 al 1817. Per quanto riguarda il pretto aspetto diplomatico della sua attività, egli venne in pratica abbandonato a se stesso dal suo governo, che lo aveva in sospetto: il fatto è che per l’ampiezza delle proprie concezioni metapolitiche il conte non poteva limitarsi a essere semplicemente “l’ambasciatore di un piccolo regno di terz’ordine”, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia nella sua introduzione, alquanto insolente, alla raccolta dei dispacci maistriani da Pietroburgo aventi per oggetto l’invasione napoleonica. De Maistre, paragonandosi al duca di Serracapriola, ambasciatore di Napoli, scrive ad esempio in una delle missive:

«Egli è un ministro a pieno titolo, ufficialmente accreditato e protetto senza equivoci di sorta; io, sono ministro di nome, ma in realtà sono un semplice privato mascherato da ministro e che resiste come può alle circostanze che gli sono avverse invece di venirgli incontro»1 .

Sull’amicizia fra de Maistre e Antonino Maresca, entrambi campioni del legittimismo, ha scritto pagine famose Benedetto Croce2 , narrando di come il napoletano avesse introdotto il savoiardo nella vita di corte russa, e di come questi si appoggiasse a lui, che era il decano del corpo diplomatico, per ogni genere di affari, fosse anche il prestito di una feluca. In compenso Serracapriola, che non era granché letterato, si serviva della penna del conte per la propria corrispondenza e nell’ambito della loro collaborazione come consiglieri del pretendente al trono di Francia, il conte di Lille, futuro Luigi XVIII. Comunque, la stessa audacia intellettuale incompresa dalla sua corte fece in compenso entrare de Maistre nel gioco della politica russa, sempre in un difficile equilibrio col suo ruolo ufficiale, e gli guadagnò influenza spirituale nei circoli pietroburghesi e con ciò un posto di grande importanza nella storia stessa della cultura russa. Bisogna figurarsi la società russa durante il regno di Alessandro I: «Mondo oscillante fra il dispotismo delle istituzioni e l’anarchia delle idee»3 , pullulante di sette esoteriche sorte in reazione alla preponderanza dell’enciclopedismo sotto Caterina II; ma la cosa più notevole, e che suona quasi inverosimile per noi, è che esisteva anche una forte corrente cattolica, grazie proprio alla “Semiramide del nord”, che con Federico II di Prussia era stata l’unica sovrana a conservare nei propri Stati i Gesuiti, dopo il loro scioglimento da parte di Clemente XIV.

I padri divennero poi molto influenti (pur sempre col divieto di proselitismo) sotto l’imperatore Paolo, che li chiamò nella capitale e che aveva in grande stima il generale Gruber. Lo zar era apertamente filo-cattolico (al punto da farsi eleggere Gran Maestro dell’Ordine di Malta), se non addirittura cripto-cattolico, ma venne fatto passare per pazzo e morì assassinato. Si sommava inoltre alla presenza dei Gesuiti il recente apporto dell’emigrazione francese: un tipico esponente di essa era il cavaliere Bassinet d’Augard, cui riuscì in modo rocambolesco di farsi invitare da Caterina II in Russia, dove ottenne un impiego nella biblioteca imperiale.

Già a Parigi disputava con gli increduli nei salotti, dopo la sua conversione repentina a seguito dell’ascolto di un sermone del gesuita Beauregard in Notre-Dame. Così temprato, a Pietroburgo divenne l’apostolo cattolico delle dame russe4 , ufficio nel quale gli succederà il conte de Maistre. Questi, da parte sua, coi Gesuiti aveva ritrovato a Pietroburgo «gli amici e gli istitutori della sua giovinezza»5 – per un destino non meno singolare di quello che aveva portato l’Ordine ad affermarsi in Russia – e viveva con religioso stupore questa corrispondenza provvidenziale, che motivava il suo soggiorno. Egli fu al fianco dei padri difendendoli dagli attacchi degli illuminati di sinistra, che avevano introdotto il razionalismo tedesco nelle università, per consolidarne l’influenza quali educatori della gioventù: da qui i suoi scritti sull’educazione pubblica e sulla libertà d’insegnamento, presentati su istanza del ministro dell’istruzione Razumovskij e di quello dei culti Golicyn, entrambi massoni di orientamento martinista, la cui mentalità era ben nota al conte. Dalle discussioni con Golicyn nacquero anche i Quattro capitoli sulla Russia, memoriale sulla situazione del paese destinato a essere letto dallo stesso imperatore Alessandro. Conviene concentrarsi su una tesi contenuta in questo scritto, quella sulla libertà civile, perché essa chiama in causa tanto la politica che la teologia di Joseph de Maistre, ed è pertanto ricca di implicazioni, oltre a essere legata a una questione emblematica per l’intera storia della Russia, quella della servitù della gleba, che era ancora in vigore a quel tempo. Alla libertà è dedicato il primo dei quattro capitoli dell’opera. De Maistre consiglia allo zar di non prendere iniziative legali per l’emancipazione dei servi, con questo argomento: «C’è la schiavitù in Russia perché essa vi è necessaria e perché l’imperatore non può regnare senza la schiavitù»6 . A tutta prima ciò può suonare come un mero espediente di tecnica politica elitarista, ma la faccenda è molto più profonda, chiamando in causa il legame fra antropologia e politica di cui parla Carl Schmitt nella Teologia politica, proprio a proposito dei pensatori della controrivoluzione: «Ogni idea politica prende una certa posizione nei confronti della “natura” dell’uomo e presuppone che esso sia “per natura buono” o “per natura cattivo”»7 . Ora, per de Maistre non ci sono dubbi: «L’uomo, in generale, se ridotto a se stesso, è troppo cattivo per essere libero»8 , da cui la schiavitù come condizione naturale della massa degli uomini, prima dell’avvento del Cristianesimo, il cui lavorio per l’abolizione di quella è stato tanto assiduo quanto insensibile, essendo la naturalezza con cui si compiono i processi il contrassegno da cui il savoiardo distingue le opere divine. Egli usa l’immagine della Religione cristiana e schiavitù come le due ancore della società, là dove all’alleggerimento dell’una deve corrispondere evidentemente un maggiore peso dell’altra; la rivoluzione, per lui, scoppia precisamente al venir meno di entrambe. Tuttavia, se il governo della Russia, che è un paese cristiano, necessita della schiavitù, è perché essa si è trovata tagliata fuori, per una serie di circostanze storiche9 , dal «movimento generale di civiltà e di affrancamento che partiva da Roma»10. A questo si lega un fattore determinante nell’analisi di de Maistre, quello dell’influenza del clero: dall’assioma per cui «la forza che la religione esercita sull’uomo è sempre direttamente proporzionale alla stima accordata ai suoi ministri»11 risultava la netta discriminazione fra sacerdoti latini e ortodossi. De Maistre era andato studiando la situazione della Chiesa russa, raccogliendo a riguardo informazioni e notizie che davano la misura della scarsissima considerazione che godeva il clero (soprattutto quello secolare), e che ne mostravano l’estremo avvilimento12.

Questo permette a de Maistre di procedere al seguente confronto:

«Il clero latino possedeva più o meno, e secondo le forze della natura umana, i quattro fattori della più larga stima: la virtù, la scienza, la nobiltà e la ricchezza. Non deve dunque stupire la magistratura dolce e forte che esso esercitava intorno a sé, magistratura di cui non si ha idea se non la si è esaminata da vicino. […] Ora questa potenza conservatrice e preservatrice non esiste in Russia. Qui la religione può qualcosa sullo spirito umano, ma assolutamente nulla sul cuore dove pure nascono tutti i desideri e tutti i crimini. Un contadino potrà forse esporsi alla morte piuttosto che mangiare di grasso un giorno proibito; ma se si tratta di arrestare l’esplosione di una passione, non bisogna farci affidamento. Il cristianesimo non è una parola, è una cosa; se non ha la sua forza, la sua influenza penetrante, la sua antica semplicità e i suoi potenti ministri, non è più lui, non è più quello che era quando rese possibile l’affrancamento generale. Che il governo non ci faccia affidamento: il suo clero non ha nemmeno la parola nello Stato, non osa parlare, e gli si parla il meno possibile»13.

Ascoltiamo ora uno storico russo ortodosso della teologia, Nikolaj Zernov:

«Il sacerdote russo aveva in mezzo ai suoi parrocchiani una posizione diversa da quella del prete cattolico o del pastore protestante. Per gli ortodossi il sacerdote non era né il depositario della grazia divina né il tutore che sorveglia i parrocchiani nell’esecuzione del loro dovere cristiano; non aveva l’autorità del sacerdote cattolico votato al celibato, né assomigliava al dotto pastore luterano o calvinista. A paragone del clero occidentale, il sacerdote russo era meno istruito e mancava dello spirito missionario di cui ardevano i cattolici»14.

Nonostante ciò, fa seguito un’esaltazione della centralità comunitaria e liturgica del pope15 e troviamo essenzialmente confermata la valutazione di de Maistre, anche circa il fatto che, citiamo ancora Zernov, «la Chiesa non costituiva né una forza politica né una rivale dello Stato. Il clero non guidava l’opinione pubblica e aveva scarsa influenza al di fuori dell’ambito cultuale e rituale»16. Che questa condizione però fosse stata determinata dagli stessi sovrani russi, il conte lo sa benissimo, dal momento che lui stesso ricostruisce, nei suoi appunti, il processo di soppressione della sovranità ecclesiastica in Russia. Egli infatti riconosce che «anticamente il patriarca di Russia era un grande personaggio che si imponeva persino sull’imperatore, vista la sua grande influenza sullo spirito del popolo e la sua inviolabilità assoluta»17; ma questo durò fino a quando il patriarca Nikon venne fatto deporre, nella seconda metà del XVII secolo, dallo zar Alessio, e il figlio di questi, Pietro, «abolì […] tale dignità e divenne così despota assoluto»18. In questo modo gli imperatori ebbero nella Chiesa «una ben altra supremazia rispetto a quella del re d’Inghilterra. Di fatto, è l’imperatore a essere patriarca»19. De Maistre del resto toglierebbe volentieri l’epiteto di “grande” a Pietro I Romanov, e anzi nella sua corrispondenza lo qualifica come «assassino della sua nazione» per averle «tolto i suoi abiti, i suoi costumi, il suo carattere, la sua costituzione, la sua religione» e averla «lasciata in balìa dei ciarlatani stranieri e di eterne variazioni»20. Noi sappiamo però come per de Maistre la tradizione russa al tempo di Pietro I non fosse ancora assurta a vera civiltà, il che spiega anche il fatto, ammesso da Zernov, che «la Chiesa russa […] non era abbastanza agguerrita contro l’invadenza del potere temporale»21: non a caso proprio la corrente filoprotestante della Chiesa ortodossa si era fatta strumento delle nefaste riforme dello zar22 e, di fronte alla subordinazione del clero russo allo spirito protestante, de Maistre avanzerà l’argomento dell’identica essenza di tutte le Chiese separate dal centro dell’unità23.

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