La morte di Cristo come sacrificio di espiazione

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di Padre Serafino M. Lanzetta – Anno XVIII. 2-2023 – sez. Theologica – p. 183-210

Pienezza e compimento dell’antico sacrificio ebraico, Gesù offrì come vittima di espiazione non capri e giovenchi, bensì il suo Corpo e il suo Sangue, in un eterno sacrificio gradito al Padre, per l’umanità intera. Se con la parola “sacrificio” si intende sia l’azione sacra che il dono offerto per mezzo del quale si compie l’azione, appare ben chiaro che il sacrificio di se stessi, più che quello di un oggetto o di un animale, sia l’offerta più gradita e più perfetta: quella di un “cuore spezzato” che si avvicina al suo Signore e si sottomette a Lui.

1. INTRODUZIONE

Da un po’ di anni a questa parte sembra che ci sia una rincorsa per liberarsi di ciò che viene descritto quale “fantasma sacrificale”1. La morte di Gesù in Croce rappresenterebbe la morte del sacrificio più che la sua celebrazione. Uno psicanalista italiano della scuola di Lacan, M. Recalcati, si esprime in modo lapidario: «La croce non è il simbolo del sacrificio, ma è ciò che mette a morte il sacrificio, è ciò che rende per sempre vano il sacrificio, che libera il sacrificio dal peso cupo del sacrificio»2. È vero che alla psicoanalisi non si richiede il rigore biblico e teologico, eppure questa posizione, sintesi del pensiero del più grande profeta dell’anti-sacrificio, F. Nietzsche3, va presa sul serio.

Come stanno le cose? È vero che il termine “sacrificio” sembra evocare nell’immaginario comune spettri di un passato cupo, richiamando unicamente alla rinuncia e a una sorta di auto-lesionismo. Invece, è proprio a partire dalla rivelazione biblica e dal cuore della fede d’Israele, che è la Torah, che il sacrificio acquista una vera luce. Esso è il momento d’incontro con Dio per essere benedetti (cf Es 20,24); un momento cultuale in cui è Dio che prende l’iniziativa di purificare, di salvare e di liberare dal male. Il peccato contamina non solo la coscienza umana ma anche il creato (cf Lv 18,2-23), perciò ci sarà bisogno di un sacrificio di espiazione che purifichi tutto, soprattutto il luogo santo, il tempio, perché Dio non ne sia scacciato a causa del male. Senza il sacrificio non c’è vera vita.

La prospettiva biblica, che ha nel sacrificio di Gesù il suo compimento rivelativo in ragione dell’offerta che il Signore fa di se stesso, è proprio agli antipodi di ciò che comunemente viene pensato. I Vangeli e gli altri scritti del Nuovo Testamento devono essere letti alla luce del Levitico e dell’insegnamento profetico, altrimenti si rischia di abbracciare posizioni marcionite, opponendo un Dio buono del Nuovo Testamento a uno cattivo e sanguinario dell’Antico. Sarà nostra premura in questo studio far vedere la continuità intrinseca tra AT e NT rispetto al tema del sacrificio. Solo leggendo la morte di Gesù alla luce del sacrificio espiatorio e sintesi di tutti gli altri sacrifici possiamo capire fino in fondo quanto il Signore ha fatto per noi, soprattutto nel dono del suo Corpo e del suo Sangue. Nel suo Sangue effuso per noi c’è la vita, quella vita che in figura veniva “liberata” attraverso l’effusione del sangue di un animale immolato e che in Lui è donata in pienezza. Partiremo quindi dal concetto di “sacrificio” nella Bibbia per soffermarci poi sulle differenze tipologiche del sacrificio. Quindi attraverso la critica profetica al sacrificio rituale, arriveremo al vero sacrificio espiatorio di Cristo attraverso due filoni: Gesù quale Servo sofferente di YWHW che dona la sua vita in riparazione del peccato di molti e Gesù che con la sua morte è il vero hilasterión, il propiziatorio della nostra salvezza.

2. EXCURSUS BIBLICO SULLA CATEGORIA DI SACRIFICIO

Il termine “sacrificio”, realtà molto ampia e complessa, così come declinato nel nostro linguaggio non ha una parola biblica perfettamente corrispondente. Il termine ebraico più generico è qorban che indica tanto l’offerta sacrificale di un oggetto metallico quanto quella di un animale4. Fra gli studiosi c’è chi si sofferma sulla radice di tale lemma qrb (“ciò che si avvicina a”) di modo che si evinca che il sacrificio implica l’avvicinarsi alla vittima da offrire all’altare5. Qorban viene tradotto con la parola greca dôron e in latino è resa con munus. La parola greca più diffusa che indica il sacrificio è thusía che a sua volta traduce l’ebraico zebah, che letteralmente significa “vittima sacrificata”; infatti il termine thusía indica l’offerta sacrificale e in latino è reso il termine sacrificium (sacrum facere) da cui la nostra parola “sacrificio”. Il termine più appropriato per indicare il sacrificio è il lemma greco thusía più che qorban. Infatti, tra gli scritti neotestamentari, l’unico che adotta la categoria del sacrificio thusía applicata alla morte di Cristo è la lettera agli Ebrei, dove il termine ricorre 9 volte (28 in tutto il NT) ed è messo in relazione con la morte di Gesù descritta come sacrificio offerto a Dio una volta per sempre (cf Eb 9,9.23.26; 10,1.5.8.11.12.26)6. Gesù ha offerto il «sacrificio [thusía] di se stesso» (Eb 9,26).

Con la parola “sacrificio” si indica sia l’azione cultuale sacra, sia il dono offerto per mezzo del quale si compie l’azione sacra. Perciò occorre tener presente due dimensioni: l’azione sacra e l’offerta di qualcosa, inizialmente di un animale e poi, attraverso la critica profetica al culto d’Israele, l’offerta del proprio «cuore spezzato» (Sal 51 [50],19), ovvero l’offerta di se stessi. Il lemma sacrificio indica perciò sia il compiere un’azione sacra (sacrum facere), che è di fatto l’aspetto principale, visto che il fine è il sacrum, avvicinarsi a Dio e sottomettersi a Lui, sia l’offerta di sé. Quando facciamo tale azione sacra? Quando offriamo qualcosa a Dio: un oggetto, un animale e in modo più perfetto se stessi.

I profeti, come vedremo, rifiuteranno il concetto di sacrificio di un animale. Tale sacrificio non trasforma l’uomo. C’era bisogno di un sacrificio nuovo, che cambiasse la coscienza dell’uomo, che lo rendesse nuovo dinanzi a Dio. Così arriviamo al sacrificio di Cristo, il Messia, il quale non ha offerto un animale, ma se stesso. Lui è l’Agnello di Dio.

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