Il problema è il metodo

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di Padre Serafino M. Lanzetta, – Anno XVII. 2-2022 – sez. Editoriale – p. 5-14

L’11 ottobre 2022 ricorreva il sessantesimo anniversario di apertura del Concilio Vaticano II. Dopo sessant’anni di Concilio appare con estrema chiarezza che al di là dei vari problemi ermeneutici emersi, c’è uno snodo fondamentale a cui guardare con attenzione, crocevia dove si intrecciano le strade conciliari, anche di segno opposto: il problema del metodo o del modo di dire la fede inaugurato dal discorso di apertura di Giovanni XXIII. Da papa Roncalli a papa Bergoglio la distanza è molto breve e non solo per la possibile simmetria tra i due. Quel riposizionamento inatteso di un magistero presentato con un’indole prevalentemente pastorale sarà dipanato nella storia e nella teologia seguenti in modo prolifico, fino a trovare in papa Francesco un continuatore ideale e in qualche modo anche un punto d’arrivo. Tutto ciò che era implicito allora sarà esplicito oggi.

Quel discorso introduttivo fu così importante da delineare in seguito una sorta di dottrina del metodo, e così la dottrina, come sempre concepita, divenne facilmente un modo e un metodo soggettivo. Non fa mistero che la pastorale sia stata elevata a dottrina in questi sessant’anni di esperienza conciliare. Perciò continuiamo a celebrare il Concilio come evento più che insegnamento, come spirito più che lettera. Un autoincensarsi mentre la Chiesa brucia. Il nuovo metodo è proprio questo. Conciliare è sinonimo di sinodale, sinodale sinonimo di Chiesa e Chiesa sinonimo di Concilio Vaticano II. Sembra che non si esca da questo labirinto autocelebrativo. Ma andiamo per gradi e partiamo da quel discorso-guida. Si obietta di sicuro che in tal modo si sposa una visione di rottura, cara ai discepoli di Giuseppe Alberigo, e che si riduca il Concilio a un discorso, peraltro solo inaugurale. Procediamo gradualmente e voglia il lettore seguire fino in fondo questo ragionamento.

Partiamo proprio dal discorso programmatico e vero apripista dei lavori conciliari, Gaudet mater Ecclesia, dell’11 ottobre 1962. Tra le molte cose, Giovanni XXIII diceva questo, che diventerà una sorta di manifesto conciliare:

«Occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione [in eodem sensu eademque semper sententia]. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale»1 .

Riportiamo in modo sinottico anche il testo latino di questo passo, per ragioni di accuratezza. Si ricordi che il testo fu tutta farina del sacco di Giovanni XXIII2 , fu scritto in italiano e poi fu tradotto in latino per gli atti3 . Il testo latino recita:

«Oportet ut hæc doctrina certa et immutabilis, cui fidele obsequium est præstandum, ea ratione pervestigetur et exponatur, quam tempora postulant nostra. Est enim aliud ipsum depositum Fidei, seu veritates, quæ veneranda doctrina nostra continentur, aliud modus, quo eadem enuntiantur, eodem tamen sensu eademque sententia. Huic quippe modo plurimum tribuendum erit et patienter, si opus fuerit, in eo elaborandum; scilicet eæ inducendæ erunt rationes res exponendi, quæ cum magisterio, cuius indoles præsertim pastoralis est, magis congruant»4.

In modo sorprendente e nuovo, Giovanni XXIII va a distinguere tra il deposito della fede o le verità contenute nella veneranda dottrina e il modo di enunziarle, pur ribadendo che questo modo non doveva essere occasione per cambiare la dottrina dicendo un’altra cosa. Infatti viene citato san Vincenzo di Lerino, il quale nel suo Commonitorium è il primo ad asserire in che modo è garantito un vero sviluppo e un’amplificazione della dottrina nella continuità dei principi e degli enunciati, senza che il vero progresso diventi un mutamento e quindi una corruzione della dottrina. Ecco il passaggio-chiave del lerinense:

«Se è proprio del progresso che ogni realtà si accresca in se stessa, è proprio del mutamento, invece, che qualcosa si trasformi da una cosa in un’altra. È dunque necessario che, con il passare delle età e dei secoli, cresca e molto vigorosamente progredisca l’intelligenza, la scienza, la sapienza tanto dei singoli quanto di tutti, tanto di un solo individuo quanto di tutta la Chiesa, ma soltanto nel suo genere, cioè nel medesimo dogma, nel medesimo senso e nella medesima interpretazione [sed in suo dumtaxat genere, in eodem scilicet dogmate, eodem sensu eademque sententia5 .

Eppure, sembra che non fosse tanto importante quello che si diceva, ma come lo si diceva. Il come doveva prevalere sul cosa. Si puntava al modo di dire che doveva essere “pastorale”. Epperò, come poteva essere garantito il vero progresso della dottrina se si puntava non ad essa ma al modo di esporla? Il modo, che non si può scostare di un millimetro dal senso e dall’interpretazione della dottrina, non è solo un accidente rispetto alla sostanza della fede? Così si andava a spostare il baricentro del magistero, fissandolo sul modo, sullo strumento. Ciò che era accidentale diventerà sostanziale e ciò che è sostanziale accidentale. Facendo un breve salto ai nostri giorni, ciò permetterà di essere “inclusivi” senza scomodare il dogma, aperti alle novità favorendo il cambiamento senza però giustificarlo come tale. Essere sinodali è ormai sinonimo di inclusività, di ascolto e di narrazione delle svariate condizioni di vita, provando a fare sintesi tra ciò che Dio ha fatto creando l’uomo e ciò che l’uomo fa di se stesso escludendo Dio. Il cambiamento agognato non sarà una dottrina che cambia ma il principio con cui accostarvisi, che determinerà poi il suo cambiamento subdolo. Sarà già un mutamento perché il modo sarà un principio e di conseguenza il principio della fede un modo. Il metodo di dire la fede, il modo di credere fu applicato con tanta pazienza fino a escogitare il modo migliore per non dire più cose scomode o incomprensibili ormai all’uomo di oggi, seppur tanto ribadite nei secoli precedenti. Questo prevalse sui contenuti della fede. La fides qua si impose sulla fides quæ. Il soggettivo sull’oggettivo.

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