Non sviluppo ma progresso dottrinale

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di Padre Serafino LanzettaAnno XIII. 2-2018 – sez. Editoriale – p. 197-207

Lo scorso 11 maggio 2018, il Santo Padre Francesco, nell’udienza concessa al Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha approvato una nuova redazione del n. 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica, relativo alla dottrina sulla pena di morte. Con tale Rescritto, il nuovo insegnamento è entrato in vigore lo stesso giorno della pubblicazione su L’Osservatore Romano, il 1° agosto 2018 (1).

Il Rescritto pontificio afferma anzitutto che «per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune».

Non si precisa cosa significhi «per molto tempo», che in verità non è solo un tempo cronologico ma kairologico: è la Sacra Scrittura ad offrire una chiara fondazione a tale insegnamento, presente nei Padri e reiterato dal Magistero costante della Chiesa. Non ci soffermeremo su questo, ma rimandiamo a un esauriente e recente articolo che ben illustra questo sviluppo dottrinale (2). Quel «molto tempo» però ora finisce, perché – continua il Rescritto –

«oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della
persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini
gravissimi. Inoltre, si è diffusa una nuova comprensione del
senso delle sanzioni penali da parte delle Stato. Infine, sono stati
messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono
la doverosa difesa dei cittadini, ma, allo stesso tempo, non
tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi».

​Premesso tutto ciò, si offre la nuova dottrina:

​«Pertanto la Chiesa insegna alla luce del Vangelo, che “la
pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e
dignità della persona” [Francesco, Discorso ai partecipanti all’incontro
promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova
Evangelizzazione, 11 ottobre 2017, in L’Osservatore Romano (13
ottobre 2017), 5] e si impegna con determinazione per la sua
abolizione in tutto il mondo».

Ciò che sorprende è il modo di argomentare: premesso il tempo cronologico nuovo, si dice che «la Chiesa insegna alla luce del Vangelo…». Però di fatto la Chiesa è un solo discorso di Francesco contro una dottrina costante che va dall’inizio del Cristianesimo, da San Pietro (cf 1Pt 2,13-14), fino a Giovanni Paolo II (3) e alla formulazione precedente del Catechismo.

Ciò che poi sorprende ancor di più è la Lettera ai vescovi della CDF, dove si giunge ad affermare che

«la nuova redazione del n. 2267 del Catechismo della Chiesa
Cattolica, approvata da Papa Francesco, si situa in continuità
con il Magistero precedente, portando avanti uno sviluppo
coerente della dottrina cattolica».

Soltanto sulla base della rinnovata consapevolezza della dignità della persona umana presente specialmente nella Evangelium vitæ di Giovanni Paolo II (che in realtà non intendeva abrogare la ratio della pena capitale, ma solo mostrare nel presente contesto sociale la sua inopportunità, precisando ovviamente che il comandamento “non uccidere” vieta in modo assoluto di dare la morte a un innocente) e in alcuni discorsi di Benedetto XVI miranti ugualmente a eliminare l’applicazione hic et nunc della pena di morte ma non la sua liceità morale, si dice che quanto disposto da Francesco è uno «sviluppo coerente della dottrina cattolica». Tutto ciò, comunque, con l’appoggio – non tuttavia in linea logica con quanto si insegna in modo nuovo – solo a due papi che precedono Francesco.

E tutti gli altri?

Che ne è, ad esempio, di Rm 13,4? (4) Cosa significa pertanto «sviluppo coerente della dottrina cattolica»? Ciò che vorremmo portare all’attenzione del lettore è questo: si tratta qui di sviluppo in senso teologico o piuttosto di progresso in senso tecnico-scientifico?Prima però di riflettere sulla portata del lemma “sviluppo” in opposizione ai suoi “falsi amici”, è importante fare una breve sosta sul pensiero di un autore che proprio di recente è tornato sulla cresta dell’onda e che sembra possa aiutarci a capire l’impalcatura del discorso della CDF. L’autore è il Gesuita francese Teilhard de Chardin (1881-1955).

All’evoluzionismo darwiniano Teilhard de Chardin aggiunge una peculiarità tutta sua, cioè l’unione di materia e spirito nel processo evolutivo, o meglio della materia che divenendo produce lo spirito perché si avvicina sempre più alla perfezione che è l’ominizzazione e finalmente alla cristificazione. Per Teilhard de Chardin lo “Spirito” (questa parola è scritta con la maiuscola, come l’autore fa per alcuni lemmi tecnici, ad esempio “Evoluzione”, “Vita Cosmica”, ecc.) è il prodotto della materia, «emerge dentro la materia come suo maestro» (5) ed è difatti proprio questo «Spirito che ora si evolve» (6). L’anima non ci viene rubata dal processo inarrestabile dell’evoluzione della materia ma, al contrario, l’energia che emana dal processo evolutivo è spiritualizzata, va verso la costituzione di se stessa come libertà.

La libertà è il frutto della materia che si evolve e che diviene spirituale. L’evoluzione va quindi verso un futuro al cui vertice ci sarà la piena rivelazione/trasformazione del Cristo cosmico. Una volta arrivati all’unità completa del processo evolutivo, Cristo si rivelerà come il Punto Omega. A questo punto, l’uomo sarà più dell’uomo, cioè si stabilirà quello che in termini teilhardiani è l’ultra-humano.

Possiamo star tranquilli: il sistema sociale e industriale non ci ruba l’anima perché emana delle energie che sono forze benefiche e sempre più spiritualizzate. E soltanto se si raggiunge il cuore della “Noosfera” (altra parola chiave del vocabolario teilhardiano) possiamo sperare di raggiungere la pienezza della nostra umanità (7). La Noosfera è per de Chardin la sfera terrestre della sostanza pensante. Più ci si avvina ad essa e più si raggiunge la pienezza della nostra umanità.

L’uomo che si affaccenda solo nella ricerca della Rivelazione rimane perduto nella vacuità e nell’incertezza; ciò che è molto peggio, tutto ciò estingue in lui il fuoco sacro della “Ricerca” (altra parola maiuscola) (8). La religione che prova a rigettare la natura appare come un corpo alieno al genere umano. Essa non gode più di quella vita che continua a dominare i corpi e le anime dei suoi figli battezzati (9). Costoro, che la religione cerca di santificare in modo geloso, sentono un’altra voce, quella della madre terra da cui per prima sono stati allattati. Prima la madre terra e poi la religione. Quest’ultima se vuole avere successo deve rimanere fedele ai primordiali richiami della prima madre. Una religione dunque naturale che in qualche modo si leva come cantico della terra (10).

Di più, de Chardin unisce l’evoluzione con la Croce e la Redenzione, trasformando queste ultime in un simbolo dell’arduo lavoro dell’evoluzione. In un’interpretazione classica, la sofferenza è prima di tutto e soprattutto una punizione, un’espiazione. Invece nella Vita Cosmica, in contrasto con questa visione, l’idea principale che deriva dalla sofferenza è quella di sviluppo. La sofferenza

«è primariamente la conseguenza di un’opera di sviluppo e
il prezzo che deve essere pagato per essa. La sua efficacia è
quella di uno sforzo. Il male fisico e morale sono prodotti dal
processo del Divenire: tutto ciò che si evolve ha la sua propria
sofferenza e commette i suoi propri sbagli. La Croce è il simbolo
dell’arduo lavoro dell’Evoluzione – piuttosto che il simbolo
dell’espiazione» (11).

Con avvedutezza l’allora Sant’Uffizio pubblicò un Monitum sulle opere del padre de Chardin, dicendo che esse abbondano di ambiguità e persino di errori in materia filosofica e teologica che offendono la Fede Cattolica. Invece il Pontificio Consiglio per la Cultura, guidato dal card. Ravasi, durante l’Assemblea plenaria tenutasi a Roma dal 15 al 18 novembre 2017, ha chiesto, in una lettera al Papa, di revocare questo Monitum. L’argomento principale della lettera è che il Monitum della CDF

​«è stato semplicemente superato dalla realtà, perché le
nostre conoscenze odierne sull’origine dell’uomo e sulla Bibbia
sono andate oltre le polemiche che stanno alla base del
Monitum»(12).

Come si vede, il principio-chiave di de Chardin, cioè l’evoluzionismo continuo e perfettivo, è stato accolto in pieno anche dal Pontificio Consiglio per la Cultura. A giudizio di Antonio Livi, che fa sue le critiche di Étienne Gilson, la speculazione teilhardiana porta a un pancristismo materialistico

​«che interpreta il dogma cristologico – incentrato sugli
eventi salvifici dell’Incarnazione e della Redenzione – in termini
assolutamente incompatibili con i dati essenziali della
rivelazione divina»(13).

Tesi confermata anche da Manfred Hauke, il quale aggiunge che la confusione tra natura e grazia in de Chardin favorisce la secolarizzazione. L’opera del Gesuita francese a giudizio di Hauke ha una forte tendenza al panpsichismo e al panteismo: de Chardin è uno dei padri della New Age (14).

Da questa breve disamina del pensiero teilhardiano possiamo trarre qualche spunto di riflessione per il nostro tempo, soprattutto in merito a ciò che succede oggi in una visione inarrestabilmente diveniente della dottrina cristiana. Teilhard de Chardin ci dice che l’evoluzione è un processo continuo, inarrestabile, e proprio nel suo scorrere va verso una perfezione maggiore, verso un PuntoOmega, Cristo in tutti e per tutti. L’evoluzione è necessaria e il suo prodotto migliore è sempre quello ultimo, quello più aggiornato, la stagione successiva. Quantunque non permanente, l’ultimo risultato è sicuramente migliore. Destinato ad essere superato quanto prima dal flusso degli eventi e delle stesse interpretazioni, il flusso però è la ragione di tutto. Uscirne significa darsi volontariamente la morte o forse, in termini più teologici, abbandonare il mainstream. Il processo evolutivo (e interpretativo) di de Chardin va dunque inevitabilmente avanti e non guarda mai indietro. Ciò che era prima era solo necessario perché ciò che è venuto venisse e perché anch’esso lasci presto il posto a ciò che verrà. Quando tutto sarà riassorbito in questa idea di un Cristo cosmico, o piuttosto di una “Vita Cosmica” cristiana (il Cristo Omega è il tratto religioso di un processo della materia che va verso l’intelligenza, lo spirito, e quindi verso Dio), cesserà il processo e quindi solo allora il divenire potrebbe acquietarsi.

Sembra che questa idea sia oggi pervasiva e nella Chiesa sia la più gettonata tra prelati e teologi. È sempre meglio ciò che è più nuovo. Non è solo la rincorsa alla novità che ammalia, quanto piuttosto l’idea che nel nuovo, nel presente divenire, c’è una consapevolezza migliore. Un nuovo papa abroga un papato precedente, abroga un messale, stabilisce una nuova prassi, inaugura una nuova tradizione, o meglio un nuovo modo di intendere la tradizione. In altre parole c’è una continuità del divenire anziché una continuità dell’essere. Il divenire precede l’essere ed Eraclito vince su Parmenide.

In realtà, si tratta di far la pace tra Parmenide ed Eraclito dicendo loro che l’essere e il divenire sono entrambi rilevanti, ma che non c’è divenire senza l’essere e che il divenire non è il superamento dell’essere, ma un suo sviluppo o una sua corruzione. Passando dall’ambito metafisico a quello teologico, certamente non ci può essere un divenire inteso come mutazione di sostanza, ma uno sviluppo (o degenerazione) dottrinale in materia di fede e di morale. Perché si tratti di sviluppo, esso deve essere organico, lineare, fedele al suo inizio in tutte le fasi successive, altrimenti sarebbe un’adulterazione, una contraffazione dell’idea originaria.

Facendo riferimento ai Padri della Chiesa, l’opera di san Vincenzo di Lerino è particolarmente indicata in questo contesto. Egli è tra coloro che hanno affermato con netta precisione quando una verità può essere considerata parte del deposito di fede rivelato da Dio. Nella sua opera Commoniturium, scritta nel 427, quattro anni prima del Concilio di Efeso (431), il Lerinense indica una regola ben precisa che fissa i termini della stessa cattolicità:

«Nella Chiesa cattolica dobbiamo attenerci con ogni cura a
ciò che è stato creduto dovunque, da sempre a da tutti. Poiché
è veramente “cattolico” nel senso più stretto ciò che, come il
nome stesso e la ragione della cosa dichiara, comprende tutto
universalmente. Questa regola osserveremo se seguiamo l’universalità,
l’antichità e il consenso» (15).

Soprattutto nell’istruirci circa la realtà del consenso (il quod ab omnibus creditum est), san Vincenzo ci dice che almeno “tutti i sacerdoti e i dottori” devono essere concordi. Si tratta di un’unanimità non certo materiale ma morale che è vista nell’ottica dell’adesione di tutti alla fede che precede lo stesso consenso e proprio in quanto lo precede lo stabilisce in modo inconcusso. La fede viene prima del consenso nella Chiesa. Perciò tale consenso non scalpita per trovare un’adesione di una maggioranza anche se definita collegiale. L’adesione che genera il consenso è data dall’atto di fede nella dottrina insegnata in virtù del suo essere proposta da sempre e dovunque. Da sempre, cioè dagli Apostoli in poi; dovunque, ovvero in tutte le Chiese dove è stato annunciato lo stesso Vangelo.

L’unione del quod semper e quod ubique letti in modo diacronico, così da ricollegarsi attraverso gli Apostoli al Signore Gesù venuto in mezzo a noi, facilita il quod ab omnibus, il consenso unanime. Qualcosa su cui riflettere di più ai nostri giorni dove sembra che sia la sinodalità a fondare l’ecclesialità e perciò l’universalità. Il momento sincronico si erge contro quello diacronico e così rischia di rimanere isolato rispetto all’intero sviluppo del Cristianesimo. Entrambi questi momenti sono necessari, coniugati in quel «dovunque, da sempre a da tutti». Diciamolo ancora una volta: i tutti di oggi devono essere i tutti di sempre e dovunque. Non è necessario fare più sinodi per capirlo, ma è necessario vivere nella Traditio fidei.

A san Vincenzo di Lerino fa eco Tertulliano che enuncia un principio simile che salda ad un tempo trasmissione costante del Vangelo e successione apostolica: «Quod apud multos unum invenitur, non est erratum sed traditum» (16). Ciò che presso le molte Chiese apostoliche che hanno ricevuto lo stesso Vangelo è conservato nell’unità non è errato ma trasmesso. Dove la molteplicità conserva l’unità della fede trasmessa, lì vi è la Tradizione della Chiesa. Quindi, dove la molteplicità geografica delle Chiese conserva e insegna una dottrina diversa, ciò non è più trasmesso ma errato: si tratta di una corruzione della dottrina.

Veniamo così ai nostri giorni. Lo sviluppo assegnato alla dottrina insegnata, da Amoris lætitia all’abolizione della dottrina della pena di morte al recente Sinodo dei giovani è leggibile nell’ottica di san Vincenzo di Lerino e di Tertulliano o è piuttosto un salto dottrinale fatto per passaggi a tratti e non lineari? Si dovrebbe parlare piuttosto di “progresso” dottrinale più che di sviluppo, dove il lemma “progresso”, preso in senso illuministico, significa impegno della ragione per migliorare la vita personale e sociale dell’uomo. In questo modo progresso dottrinale fa eco, in realtà, a progresso tecno-scientifico di sviluppo verso forme di vita più elevate e più complesse al fine di raggiungere una migliore libertà economica, politica e sociale.

Non è infatti vero che la nuova formulazione del Catechismo, dove si abolisce la dottrina della pena di morte, fa perno soprattutto su una rinnovata consapevolezza sociale della dignità della persona umana? Rinnovata però da quando, se fino a Giovanni Paolo II si era sempre insegnata la liceità della pena capitale (e quindi l’ammissibilità anche se in extremis)? Evidentemente è il paradigma culturale nuovo (illuministico) che soggiace a tutto l’impianto. Soprattutto il nuovo concetto di pena (solo medicinale), che annulla e vanifica gli altri due aspetti (vendicativo e esemplare), mutuato dall’illuminista Cesare Beccaria, seguito dall’utilitarista Jeremy Bentham (17), più che dalla tradizione canonistica e teologica, pone in essere un nuovo approccio personalista alla pena di morte e non più essenzialista.

Abbiamo bisogno di una teoria teologica che ci indichi di nuovo e chiaramente cos’è sviluppo e cos’è invece alterazione, progresso inteso come accomodazione delle idee religiose aglistandard dell’avanzamento tecnico e scientifico. In ciò che citiamo di seguito potremmo ravvisare una definizione data da John Henry Newman alla sua Theory of Developments, secondo cui,

​«le verità più alte e più meravigliose, quantunque comunicate
al mondo una volta per sempre mediante maestri ispirati
non potevano essere comprese dai ricettori tutte in una sola
volta, ma, in quanto ricevute e trasmesse da menti non ispirate
e attraverso mezzi umani, hanno richiesto solo un tempo più
lungo e un pensiero più profondo per la loro delucidazione»(18).

«L’unità nel tipo è certamente la più ovvia caratteristica di uno sviluppo fedele» (19). Per “tipo” Newman intende l’espressione esterna di un’idea. L’unità o preservazione del tipo si riferisce al fatto che, pur nei cambiamenti dell’espressione esterna di un’idea, l’idea rimane sempre la stessa, altrimenti si avrebbe una sua corruzione.

Limitiamoci solo a questo: c’è la preservazione del medesimo tipo nella dottrina sulla pena di morte nel precedente Catechismo e nella sua nuova formulazione? No, perché è contraddittorio affermare che essa è ora divenuta di punto in bianco inammissibile, mentre Scrittura, Tradizione e Magistero in modo concorde – se così non fosse non si sarebbe potuti approdare neppure alla sua penultima formulazione – affermano che la sua legittimità (e quindi l’ammissibilità anche se solo come extrema ratio) è fondata sulla legge morale naturale, espressione della Legge divina. In termini newmaniani dovremmo dire che siamo dinanzi alla corruzione di una dottrina e non al suo sviluppo.

Come reagire di fronte a questo modo decadente di insegnare la dottrina della fede? C’è una sola via: ritornare alla verità della Traditio apostolica, riscoprirne la sua funzione imprescindibile per la fede e il suo valore assiologico per la Teologia. Una fede e una Teologia senza Tradizione sono come quel cieco del Vangelo che pretende di guidare un altro cieco (cf Lc 6,39). Ci piace chiudere queste riflessioni con un pensiero del beato John Henry Newman:

«La nostra religione popolare scarsamente riconosce il fatto
che dodici lunghi secoli sono passati tra i Concili di Nicea
e di Trento, eccetto dedicare uno o due passaggi ad illustrare
le sue selvagge interpretazioni di certe profezie di San Paolo e
di San Giovanni» (20).

Quanti anni, invece, sono passati per la nostra Religione popolare tra la fine del Concilio Vaticano II e il 2018? E siamo proprio sicuri che il tempo cronologico sia sempre migliore?

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(1) Per il Rescritto pontificio e la Lettera ai vescovi della CDF si veda: https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2018/08/02/0556.pdf.
(2) Cf C. Dounot, Une solution de continuité doctrinale. Peine de mort et enseignement del’Église, in Catholica 141 (2018) 46-73.
(3) Cf ivi, pp. 56ss.
(4) Al punto che il card. Journet poteva scrivere: «Se il Vangelo interdice agli Stati di applicare la pena di morte, San Paolo stesso allora ha tradito il Vangelo» (L’Église du Verbe incarné, t.1: La hiérarchie apostolique, Édition Saint-Augustine, Saint-Maurice 1998, p. 575 (cit. in ivi, p. 46).
(5) T. de Chardin, Writings in time of war, Collins, London 1968, p. 78: Mastery of the World and the Kingdom of God (orig. franc.: Écrits du temps de la guerre, 1965).
(6) Ibidem.
(7) Cf T. de Chardin, The future of Man, William Collins Sons & Co, London 1964, pp. 190-191 (orig. franc.: L’Avenir de l’Homme, 1959).
(8) Cf T. de Chardin, Writings in time of war, p. 83. Si veda anche p. 221: mediante un intreccio di forze materiali e spirituali il mondo va verso la personalizzazione che è una necessità per l’“Universo” (altra parola in maiuscolo).
(9) Cf ivi, p. 86.
(10) Non a caso la Lettera Enciclica di Francesco Laudato si’ al n. 83 (nt. 53) cita Teilhard de Chardin.
(11) T. de Chardin, Writings in time of war, p. 71 (Cosmic Life).
(12) www.cultura.va/content/dam/cultura/docs/comunicatistampa/CS23nov10Teilhard.pdf.
(13) www.fidesetratio.it/theilard-de-chardin-ravasi-francesco.html.
(14) Cf Die Tagespost, 8 dicembre 2017.
(15) San Vincenzo di Lerino, Commonitorium, 2,6.
(16) Tertulliano, De præscriptione hæreticorum, p. 28. Questo principio di Tertulliano lo contestualizziamo nel nostro saggio su La Tradizione come regola della Fede.
(17) Cf C. Dounot, Une solution de continuité doctrinale. Peine de mort et enseignement de l’Église, p. 71.
(18) J. H. Newman, An Essay on the Development of Christian Doctrine, James Toovey, Londra 1845, p. 27 (trad. it.: Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana, 2003).
(19) Ivi, p. 58. Accanto a questo primo principio fondamentale per sondare il vero sviluppo, distinguendolo dalla corruzione di un’idea, Newman ne enumera altri 6: continuità dei principi, potere di assimilazione, sequenza logica, anticipazione del suo futuro, azione conservatrice, vigore perenne.
(20) Ivi, p. 5.

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