Se la moralità degli atti umani dipenda dal riferimento a Dio. Bonaventura e Scoto a confronto

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di Padre Jean François M. Coudjofio, FI – Anno XVI. 2-2021 – sez. Philosophica – p. 121-164

Presentiamo l’ultima parte dello studio sulla teologia morale dei Dottori francescani, in particolare sui criteri d’una corretta valutazione morale e il ruolo dell’ordinazione a Dio secondo tali pensatori. In questa parte l’Autore fa il raffronto tra san Bonaventura e il beato Giovanni Duns Scoto, mettendo a fuoco il loro legame, e conclude mostrando come il loro indirizzo fondamentale sia stato confermato, tra l’altro, dalla Veritatis splendor. Non mancano gli accostamenti a san Tommaso d’Aquino e agli altri grandi scolastici.

Da quanto abbiamo esposto, è facile rilevare una somiglianza di fondo nella visione morale di san Bonaventura e del beato Giovanni Duns Scoto. L’impostazione è la stessa: fine dell’uomo e dei suoi atti è e non può non essere il Deus-Charitas. L’agire deve corrispondere all’essere, il fine dell’agire al fine dell’essere. Mentre il primo Dottore mette in risalto l’aspetto affettivo, il vissuto della carità, il secondo ne irrobustisce i fondamenti teorici, sottolineando le proprietà innate della facoltà volitiva. Nonostante Duns Scoto faccia alcune critiche costruttive a san Bonaventura, qualche volta, citandolo nelle opiniones aliorum, appare che il suo obiettivo, tuttavia, sia di precisare e raffinare concezioni diffuse tra i suoi contemporanei e confratelli. Ad ogni modo permangono alcune differenze apparentemente marginali. Di seguito enucleeremo i principali punti di convergenza, l’ancoraggio comune ad Alessandro di Hales e le innegabili divergenze, concludendo poi con le riflessioni suscitate dall’indagine.

1. LE CONVERGENZE

Sono certamente numerosi i punti in cui il Serafico e il Sottile convergono. Ciò non stupisce se si considera che fanno parte dello stesso ordine religioso. San Bonaventura è della seconda generazione dei seguaci di san Francesco di Assisi, che andava proclamando l’amore di Dio, talvolta piangendo perché l’Amore non è amato; il beato Giovanni Duns Scoto invece è della terza generazione. Impregnati della stessa spiritualità, nonostante la differenza di cultura, sono partiti da un modo di vedere Dio e l’uomo simile. Di tutti gli aspetti che accomunano la loro teologia morale, vogliamo cogliere tre tra i più salienti, soprattutto in riferimento al nostro quesito: la centralità della charitas, l’ordinazione gerarchica delle bontà morali e l’armoniosa insistenza sul carattere oggettivo e quello circostanziale dell’atto morale.

1.1 Morale incentrata sulla charitas

Il primo punto di convergenza che emerge con particolare vigore dalla nostra analisi degli scritti dei due maestri è la concezione di Dio come amore, «formaliter charitas et dilectio»1, «pura bontà, ossia atto puro di un principio che caritatevolmente ama di amore gratuito e di amore debito e di amore permischiato di gratuità e dovere»2, il quale crea per partecipare tale suo amore ad extra e far amare la propria essenza, volendo anche rendere beata la creatura umana, fatta in grado di amarlo. Detta creatura si bea unicamente amandolo gratuitamente. Perciò la ricerca della beatitudine è una tendenza innata dei figli di Adamo e non può essere destituita del suo orientamento soprannaturale. Essa consiste nell’amare Dio sopra ogni cosa, veramente ed eternamente. La carità verso Dio riveste così un valore di fine ultimo dell’uomo e scopo pratico di ogni suo agire morale. In seguito, l’atto morale perfetto viene ricondotto all’autentico atto di carità verso Dio, con tutte le conseguenze annesse.

Detto ciò appare evidente in san Bonaventura e Duns Scoto da una parte il primato della carità – carità intesa come amore disinteressato, ossia non egoistico –, dall’altra una sottolineatura dell’esigenza della verità oggettiva. Il giusto fine celato e espresso da ogni buon finis operantis è Deus in se, Dio ricercato propter ipsum Deum. La felicità propria passa in secondo piano e non fonda il retto – nel vero senso della parola – agire morale.

In tal modo la morale dei Dottori francescani, senza demonizzare la tendenza alla felicità, si rivela antieudemonistica, perché con la cerca primordiale della eudaimonía si rimane nella sfera dell’amore concupiscibile. Per di più siffatta morale si distingue dall’etica delle virtù, giacché queste ultime non vi sono meramente lodate e ricercate al di sopra di ogni cosa, ma piuttosto doverosamente inquadrate, subordinate e finalizzate alla charitas erga Deum. Non è neanche – lo si vede – una morale del dovere, alla Kant. È la morale dell’amore perfetto, ossia gratuito, libero, laddove la libertà indica l’autodeterminazione verso il bene, nonostante il dovere e l’inclinazione naturale verso il bene in generale.

Inoltre san Bonaventura e il beato Giovanni Duns Scoto si allontanano decisamente dalla cosiddetta morale delle intenzioni. Quest’ultima ha qualcosa di paradossale. Nasce dalla volontà di evitare il determinismo naturalistico, il quale militando per un certo oggettivismo, insinua che le cose non possano avere finalità particolare, né l’uomo muoverle secondo una sua propria, essendo esse immerse in un circolo già determinato, che non dipende da nessuno. Di qui si nota giustamente nella morale delle intenzioni una messa in risalto della finalità ultima e universale costituita da Dio e la sottolineatura, al contempo, della libertà di Dio e dell’uomo. Il paradosso sta nel fatto che si è finito per far dipendere tutto dallo scopo che liberamente l’uomo si prefigge nel suo agire: il bene e il male dipenderebbero dall’intenzione dell’agente. Il Serafico e il Sottile riescono invece a salvaguardare la finalità ultima e universale, la libertà divina e umana insieme all’oggettività dell’agire morale, facendo pendere tutto dal Bene supremo, infinito, quindi sussistente che è Dio e che ha stabilito delle norme oggettive che l’uomo deve liberamente seguire per raggiungerlo e amarlo eternamente. Fanno ciò partendo da una nozione di bene che racchiude necessariamente quella di vero e di retto.

Il fondamento scritturistico del loro approccio è solido. Dalla Genesi all’Apocalisse, tanti sono i riferimenti; anzi, la Sacra Scrittura stessa appare la narrazione di quanto ha operato l’amore di Dio e l’invito rivolto all’uomo ad amarlo. Essa è definitivamente la rivelazione di Dio nella sua essenza, rivelazione portata a compimento nella manifestazione del suo essere Charitas. Lo stesso Salvatore nostro Gesù Cristo ha lapidariamente proclamato che dai due comandamenti della carità dipendono tutta la legge e i profeti (Mt 22,36-40). Vogliamo però oltre ai testi paolini riportati nell’introduzione, citarne altri quattro particolarmente importanti. 1Tm 1,5 dichiara che il fine della legge è la carità. Rm 10,4 sentenzia che fine della legge è Cristo. Rm 13,9 stabilisce che pienezza della legge è la carità. Infine 1Cor 13,1-4 avverte che tutte le opere senza la carità non giovano a nulla.

Occorre allora facilmente alla mente la luminosa verità dell’inseparabilità del Primato di Cristo dal primato della carità. Si accompagnano non solo dal punto di vista speculativo, ma anche da quello pratico. Il Verbo divino è charitas e a tale charitas l’uomo è tenuto a mirare. La centralità di Cristo – quindi dell’amore incondizionato a Lui – deve evidenziarsi anche nell’agire morale. Se tutte le cose a livello naturale sono state fatte «per mezzo di lui e in
vista di lui» (Col 3,16; cf Gv 1,3), a livello morale, devono essere adoperate allo stesso modo, o meglio, l’uomo deve servirsi di esse – e operare – anche “per mezzo di Lui e in vista di Lui”; la qual cosa non comporta una confusione tra natura e grazia, né tantomeno tra ontologia e morale. Una funge da base per l’altra. Non si confondono. Si distinguono in analogia alle due nature in Cristo.

1.2. Ordine essenziale tra i vari gradi di bontà morale

Ambedue i maestri distinguono la bontà naturale dalla bontà morale e riconoscono tre tipi di bontà morale: quella derivante dal genere oggettivo, quella data dalle circostanze annesse all’atto e infine quella che è tale in ragione dell’accettazione speciale da parte di Dio. Danno grande rilievo alla classica e dionisiaca definizione di bene e di male morali: “Bonum est ex integra causa, malum quocumque defectu3. Di qui la visione del vero bene morale come ciò che attualmente permette all’uomo di raggiungere il fine ultimo.

Come il Serafico e il Sottile vedono la creatura essenzialmente ordinata a Dio, similmente chiariscono, ciascun a suo modo, quello che possiamo chiamare l’ordine essenziale4 tra le bontà morali.

Si nota che rispetto all’atto, le bontà morali sono degli accidenti, precisamente delle qualità – quindi sono predicate in qualis e non in quid –, tuttavia prese in se stesse, sono delle quiddità. In quanto tali possono essere oggetto di una equiparazione, ossia di una mutua relazione di comparazione: essere reciprocamente comparate l’una all’altra. Precisamente possono essere dette una più o meno perfetta di un’altra e la meno perfetta è ricondotta alla più perfetta quasi come al proprio esemplare. Perciò, come evidenziato, è un ordine essenziale di eminenza quello che regna tra le bontà morali.

Rammentiamo che l’ordine essenziale si divide in ordine di dipendenza e in ordine di eminenza. Nell’ordine essenziale di dipendenza il posteriore non sussiste se non continua a sussistere l’anteriore. Ora le bontà morali sono tali che l’oggettiva può essere per accidens senza la virtuosa e questa senza la meritoria. Nondimeno, come sottolineato sopra, l’oggettiva è veramente tale perché ordinabile alla virtuosa e alla meritoria. Pertanto, lo vogliamo riaffermare, l’ordinabilità alla bontà meritoria – quindi l’esse ad assequendam beatitudinem, secondo l’espressione bonaventuriana – è la vera ragione della bontà ex genere e di quella virtuosa.

Sicché, mentre quoad nos va necessariamente considerata anzitutto la bontà oggettiva e in seguito le altre, tenendo conto invece della vicinanza a Dio, bisogna pensare diversamente: il primo posto viene occupato dalla bontà meritoria, il secondo dalla bontà circostanziale e il terzo da quell’oggettiva. Come in ogni ordine essenziale di eminenza il posteriore è meno nobile dell’anteriore e ordinato a esso, parimenti la bontà oggettiva è ordinata alla circostanziale, questa alla meritoria, la quale in ultima analisi è ordinata a Dio, poiché ha per scopo immediato l’unione sempiterna con Dio.

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